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Cosa unisce e cosa divide Stati Uniti e Iran (non solo sul nucleare)

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Dopo il pressing sulla Corea del Nord, gli Stati Uniti sono pronti a rivedere la propria politica nei confronti di un altro Paese che tresca con il nucleare: l’Iran. Ieri il segretario di Stato Rex W. Tillerson ha dichiarato che l’accordo raggiunto nel 2015 per interrompere il programma nucleare iraniano rappresenta un disastro, perché “fallisce nel conseguire il risultato di avere un Iran non nucleare” e non fa altro che “ritardare” il momento in cui gli ayatollah raggiungeranno “l’obiettivo” di far diventare l’Iran “un Paese nucleare”.

Le parole di Tillerson arrivano paradossalmente nello stesso giorno in cui il suo ministero ha trasmesso al Congresso un rapporto in cui si sostiene, in linea con quanto verificato dall’Agenzia ONU per l’energia atomica, che l’Iran si sta attenendo alle prescrizioni del Joint Comprehensive Plan of Action (JCPOA), l’accordo siglato nel luglio 2015 dall’Iran insieme a Usa, Russia, Cina, Gran Bretagna, Francia e Unione Europea, per sospendere per alcuni anni le attività nuclaari di Teheran.

Sebbene Trump in campagna elettorale abbia definito il JCPOA “il peggior accordo di sempre” e abbia minacciato di stralciarlo, non sembra che l’amministrazione sia intenzionata a ritornare sui propri passi, come auspicano peraltro molti esponenti del Partito Repubblicano. Gli Stati Uniti sanno bene che un dietrofront degli Usa incontrerebbe la fiera opposizione degli altri firmatari dell’accordo. Il senso politico delle dichiarazioni di Tillerson va semmai rintracciato nella volontà dell’amministrazione Trump di resettare l’approccio americano nei confronti dell’Iran, che sotto Obama sembrò virare decisamente verso l’appeasement. Nell’opinione del nuovo governo Usa, l’Iran resta infatti uno strenuo avversario, un provocatore seriale oltre che “il principale sponsor del terrorismo” nel mondo.

Le divergenze tra i due paesi sono in effetti numerose, a cominciare dalle rispettive posizioni nel fronte più caldo in cui ambedue le potenze sono impegnate: il Siraq. Insieme alla Russia, l’Iran è fermamente schierato con il presidente siriano Bashar al-Assad, che sostiene attivamente con proprie truppe e con una generosa linea finanziaria. In Iraq, invece, l’Iran si pone paradossalmente dalla stessa parte degli Stati Uniti, ossia con Baghdad contro i jihadisti dello Stato islamico. Ma lo fa in un modo che mina alla radice ogni prospettiva di pacificazione successiva alla caduta del califfato: schierando cioè quei miliziani sciiti, reclutati in Iran come in altri paesi in cui vi è una presenza sciita, che si sono distinti sul fronte per aver fomentato il settarismo contro la popolazione sunnita, con atti di violenza comparabili a quelli dell’Isis. E evidente pertanto come, dalla prospettiva americana, l’ingerenza iraniana sul fronte iracheno rappresenti più parte del problema che della soluzione.

Il settarismo non piaga però semplicemente Siria ed Iraq, ma è la cifra del confronto atavico tra sunniti e sciiti che tende a deflagrare in punti caldi come lo Yemen. Qui, dove una guerra impazza dal 2015, l’Iran è attivamente impegnato nel sostegno alla ribellione degli Houthi, setta riconducibile allo sciismo, mentre gli Usa stanno dall’altra parte, ossia con il governo legittimo espulso dalla capitale Sana’a e con le potenze del Golfo che sono intervenute militarmente per sedare la rivolta. Sempre ieri, non a caso, il segretario alla difesa Usa James Mattis, in visita in Arabia Saudita, ha descritto l’Iran come la fonte di tutti i guai nel Medio Oriente, portando ad esempio i missili che Teheran fornisce agli Houthi.

Iran e Stati Uniti sono inoltre ai ferri corti per quanto concerne il sostegno iraniano agli Hezbollah libanesi e ad Hamas, acerrimi avversari di Israele con cui l’America di Trump ha rinnovato lo storico abbraccio.

La rivalità tra Washington e Teheran è dunque conclamata, e Trump sembra aver deciso di uscire dall’ambiguità determinata dalla scelta del suo predecessore di siglare il JCPOA. Decisione che suscitò l’ira degli alleati sunniti dell’America e la fiera ostilità di Israele, che considerava e continua a considerare il programma nucleare dell’Iran una minaccia esistenziale.

Tutto sembra indicare dunque che gli Stati Uniti stiano tornando al business as usual nei confronti dell’Iran. E che la svolta obamiana, che fu salutata come storica, sia oggetto di un serio ripensamento che prelude ad una rinnovata ostilità.

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