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Cosa penso della legge sul biotestamento

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La legge sul biotestamento continuerà ad essere contestata, sia da quanti non accettano l’obiezione di coscienza del medico (ad esempio, Michela Marzano su la Repubblica), sia da quanti la considerano il frutto avvelenato di una crisi antropologica (Benedetto Ippolito su Formiche.net). Opinioni ambedue rispettabili, sia chiaro. Sono però convinto che le polemiche della domenica, quando i sacerdoti di tutte le fedi predicano in modo concitato, prima o poi si cheteranno nei giorni feriali. Del resto, quando si tratta di sesso e di procreazione in genere laici e cattolici fanno di testa propria, come risulta dai dati demografici e da ciò che si sa sul ricorso all’aborto e alla fecondazione assistita. Posso sbagliare, ma credo che lo stesso avverrà dopo l’approvazione definitiva della legge nei due rami del Parlamento.

Nella discussione di queste settimane, abbiamo visto politici di destra e di sinistra – di solito restii a rendere conto di ciò che hanno fatto – largheggiare in appelli ai valori. In effetti, è più facile sostenere di aver difeso un valore che dimostrare di aver realizzato ciò che si era promesso. Capisco di più quelli della Chiesa, la quale si reputa depositaria e custode delle norme iscritte nella natura dalla mano di Dio; magari quelle per le quali la famiglia e la proprietà privata sono secondo natura, mentre l’omosessualità non lo è. Ma in una società liberale nessuna maggioranza e, tanto più, nessuna minoranza può imporre una norma che costringa a seguire una condotta uniforme quando possono coesistere condotte diverse senza ledere la libertà di nessuno.

Lo stesso vale per il diritto alla vita, considerata dalla dottrina cattolica un dono divino (del quale gli uomini non possono però fare un libero uso), mentre le etiche laiche insistono sul diritto alla qualità della vita e sull’autonomia del paziente di fronte alla sua fase terminale. Sono due prospettive inconciliabili, ma in uno Stato laico nessuno dovrebbe pretendere di bruciare l’una sulle ceneri dell’altra.

Prendiamo la trasformazione che ha investito negli ultimi decenni il concetto di morte. In molti ordinamenti si è ammesso che la morte può essere dichiarata non solo dopo la cessazione dell’attività cardiocircolatoria, ma anche dopo l’arresto dell’attività cerebrale. Qualcuno potrà dire che è cambiata non la concezione della morte, ma soltanto il metodo del suo accertamento. Si tratta comunque di una novità radicale, soprattutto se si pensa che l’attività cardiaca e respiratoria possono essere mantenute in funzione in un cadavere per consentire il prelievo di organi da trapiantare. E proprio con l’avvento della chirurgia dei trapianti il concetto di morte è mutato in nome della solidarietà, per cui si fa dono del proprio corpo per salvare la vita di un altro. Una motivazione che ha permesso di violare antichi tabù religiosi, intorno ai quali si era costruito il culto dei defunti e il rituale funerario.

Inoltre, è vero che le gerarchie ecclesiastiche continuano a rifiutare con fermezza sia l’eutanasia passiva che quella attiva, ma è anche vero che si sono mostrate disponibili a ravvisare un accanimento terapeutico in molti interventi su malati terminali. Sebbene tale orientamento, più che come un’innovazione etica, a mio avviso va letto come il sintomo del forte allarme suscitato dagli eccessi tecnologici della medicina contemporanea.

In conclusione, c’è solo da sperare che il pensiero laico non perseveri nel suo peccato moderno (la pretesa di spiegare perfino il mistero della vita); e che la Chiesa non perseveri nel suo errore medievale (la pretesa di dettare regole alla società). Forse ci vorrebbe una ragione più austera, più consapevole dei propri limiti; e, insieme, una fede più umile nell’amministrazione della sua verità.

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