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Le Finanze pensano a uno studio di settore per Amazon, Facebook e Google?

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Prove tecniche di tassazione ad hoc dei colossi digitali? La domanda non è solo retorica dopo un’analisi scritta da un consigliere del ministero dell’Economia retto da Pier Carlo Padoan. Ecco nomi, numeri e dettagli di uno scritto che sta facendo discutere già esperti e addetti ai lavori.

L’ANALISI DI MARE’

Incompresa e sottostimata, l’economia digitale ha implicazioni importanti per la crescita economica e della produttività ma pone sfide evidenti ai sistemi fiscali. Alle quali c’è però modo di porre rimedio ad esempio definendo uno “studio di settore” per l’economia digitale per definire classi di ricavi delle varie imprese sul piano nazionale. A scriverlo sul Sole 24 Ore di ieri è stato Mauro Marè (nella foto), ordinario di Scienza delle Finanze alla Luiss di Roma e consigliere del ministro dell’economia Pier Carlo Padoan. Ma cosa ha scritto di preciso l’economista del Mef?

I NUMERI

L’economia digitale rappresenta adesso circa il 10% del Pil dell’area Ue, e secondo Marè in poco tempo sarà il 30-40% del Pil dei paesi avanzati. Qualche numero: “Facebook ha 2 miliardi di utenti, la Cina 1,4 miliardi di abitanti, l’India 1,3, WhatApp e Youtube più di un miliardo di utilizzatori, Twitter, Amazon e Skype sono vicine al numero di abitanti degli Usa e della Ue. È ormai chiaro che stiamo parlando di veri e propri stati “virtuali”, ha snocciolato in premessa il consigliere di Padoan.

LE DIMENSIONI

Per capire meglio cosa racchiude l’universo dell’economia digitale, Marè elenca le sue tre dimensioni specifiche: “a) il commercio elettronico; b) le piattaforme multiparti (multi-sided platform) come Airbnb, Uber, Foodora, Blablacar, ecc. che hanno soppiantato settori economici tradizionali (agenzie di viaggio, catene alberghiere, agenzie immobiliari, trasporti); c) le attività degli over the top (Ott), ovvero i grandi portali web come Google, Facebook, Twitter, Youtube etc”.

IL PREZZO DA PAGARE

La linfa dell’economia digitale? I nostri dati personali, ha spiegato Marè: “Gli utenti accedono gratuitamente al sito web ma in cambio conferiscono ai portali informazioni personali preziose che sono il nuovo valore aggiunto (linfa) dell’economia digitale. Gli Ott riescono a finanziare la costruzione e la gestione dei portali innanzitutto tramite la vendita di pubblicità on line, secondo il numero di contatti”, si legge sul Sole, ma “l’attività davvero cruciale dei portali web è l’utilizzo dei big data, ovvero la profilazione degli utenti e la vendita dei loro dati ad operatori interessati ai contenuti commerciali di questi profili. Quindi al beneficio dell’uso gratuito di un portale per gli utenti corrisponde l’offerta non remunerata di una quantità impressionante di informazioni che è la base dell’economia digitale”, ha commentato il consigliere del ministro dell’economia.

LE SFIDE AI SISTEMI FISCALI

Fin qui le implicazioni importanti dell’economia digitale per la crescita economica e della produttività. La stessa però, ha osservato Marè, pone sfide evidenti ai sistemi fiscali.

“La concezione del sistema tributario e la definizione delle basi imponibili vanno completamente ripensate e adattate alla nuova situazione”. Qualche esempio: “Ha ancora senso il concetto di stabile organizzazione? Vi è un’ovvia e crescente difficoltà a ricondurre a tassazione queste nuove basi imponibili digitali. Abbiamo due rischi: quello di un’evaporazione delle basi imponibili più mobili e quello di una riduzione dell’autonomia degli Stati nel tassare quelle domestiche. Tutto ciò ha, se si vuole enfatizzare, un carattere eversivo per la democrazia”, scrive l’economista.

LE PROBLEMATICHE

Le questioni tributarie legate all’economia digitale sono diverse. “Oltre al commercio elettronico (B2B, B2C) e alla riscossione dell’Iva nel luogo di consumo finale del bene, c’è la tassazione delle piattaforme multi parti. Qui vi sono due dimensioni rilevanti: a) la base imponibile (reddito) che deriva dall’offerta di nuovi servizi tramite le piattaforme (ad esempio, le entrate derivanti dall’affitto di appartamenti, o quelle dai servizi di trasporto privato con auto etc); b) la tassazione dei ricavi ottenuti dalle stesse piattaforme. Una possibile soluzione può essere l’introduzione di forme di ritenuta alla fonte sui ricavi delle diverse piattaforme digitali (una Airbnb tax, una Uber tax etc) anche se l’applicazione sul piano operativo non è scontata e semplice”.

LE PROPOSTE

Ecco invece le proposte: “Nel caso dei portali web, una web tax (bit tax) “pura” sembra difficile sul piano tecnico e politico (si veda la recente rivolta in Ungheria). Perciò si può pensare a forme di misurazione (contatori digitali) che rendano possibile il rilevamento statistico del numero di utenti, la natura e l’intensità dei contatti – sono questi sono i parametri chiave che determinano i ricavi dei grandi operatori web”.

Marè è entrato anche nel dettaglio: “Per realizzare tale misurazione è cruciale usare le grandi infrastrutture nazionali di rete che rendono possibile l’accesso al web. Vanno studiati i dettagli tecnici della misurazione, le possibilità di elusione (l’accesso tramite proxies e Vpn), le implicazioni sulla privacy e la delicatezza di conservare archivi digitali di questa natura e dimensione. Si tratterebbe di definire uno “studio di settore” per l’economia digitale, dove le differenti forme di utilizzo degli utenti (click) possano essere trasformate in parametri precisi per definire classi di ricavi delle varie imprese sul piano nazionale”.

Ma questa non è la sola proposta: Si potrebbe anche “usare il settore bancario per applicare forme di prelievo nel momento del pagamento, oppure l’introduzione di un prelievo compensativo (equalization levy, come in India) per garantire identità di trattamento tra operatori domestici ed esteri. La ricerca delle nuove basi imponibili e la definizione di un fisco digitale è appena cominciata e sarà cruciale per il futuro dei sistemi fiscali”, ha scritto Marè.

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