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Svezia, vi racconto l’ex paradiso dell’integrazione

Stefano Cingolani

Vuoi vedere che sulla Svezia aveva ragione Donald Trump? E’ una delle prime domande venute in mente dopo l’attentato a Stoccolma. E la risposta è sì, anche se la sua battuta era stata originata da una sommaria interpretazione di un documentario trasmesso da Fox News, le cose in sostanza stanno così. Il paradiso nordico della tolleranza e dell’integrazione non esiste più. Già anni fa era crollata la Danimarca che, dopo il giro di vite sull’immigrazione, ha scaricato una gran quantità di immigrati al di là del ponte che scavalca l’Oresund e collega in un quarto d’ora Copenaghen a Malmö. Adesso tocca alla più grande e più accogliente Svezia che ha il maggior numero di stranieri in rapporto alla popolazione.

Il cambiamento è avvenuto nel corso degli ultimi vent’anni, prima sottotraccia poi in modo sempre più evidente e clamoroso, con una lunga serie di disordini e rivolte nei quartieri periferici costruiti dai comuni per accogliere chi viene da Paesi esteri e chiede asilo. Si è molto discusso sul modello svedese di integrazione, detto anche verticale, che assomiglia per molti versi a quello francese e, proprio come quello francese, è entrato in crisi. In sostanza, agli immigrati viene offerto un alloggio e un assegno, a spese dello Stato, in cambio debbono imparare la lingua e cominciare il processo di inserimento al termine del quale possono avere accesso al lavoro. Il risultato è che si creano delle sacche di sostanziale segregazione in attesa della futura integrazione, veri e propri ghetti la cui cultura diventa egemone soprattutto tra i giovani (e ormai siamo in Svezia alla seconda, se non alla terza generazione).

C’è un grande dibattito sul modello, le posizioni sono diverse perché non ha funzionato nemmeno il modello orizzontale prevalente nel mondo anglosassone che alimenta una logica da tribù e non consente mai una vera integrazione. Lo si vede dalla scarsità di matrimoni misti nonostante la convivenza duri ormai da almeno un secolo.

La diatriba è destinata a non avere alcuno sbocco perché nel frattempo è successo qualcosa sul quale abbiamo troppo a lungo chiuso gli occhi: la migrazione stessa è cambiata, la stragrande maggioranza viene da un mondo islamico segnato, se non per molti versi dominato, dal fondamentalismo e dal radicalismo. Vent’anni fa per le strade della Svezia le ragazze con il capo e il volto coperto erano una esigua minoranza e oggi sono la maggioranza. Basta passeggiare per le strade delle maggiori città, a Malmö dove il 35-40% della popolazione è composta da immigrati il fenomeno è clamoroso.

L’islamismo radicale e l’interpretazione fondamentalista del Corano aprono un conflitto incomponibile con la cultura, le leggi, le istituzioni svedesi a cominciare dalla scuola (e questo è vero in tutta l’Europa occidentale). Norme e costumi vengono rifiutati se non dileggiati dai giovani musulmani attratti da una sharia mitica. Gli stessi comportamenti personali cambiano: per le ragazze c’è la segregazione familiare, per i ragazzi l’affermazione della propria mascolinità anche con la forza se non con la violenza. Tutto questo è noto, i giornali popolari sono pieni di microstorie specchio di macroproblemi.

Gli svedesi, prudenti, amanti del consenso e dediti al politicamente corretto, hanno tollerato a lungo, le autorità hanno messo la testa sotto la sabbia. Ma dobbiamo essere onesti, lo stesso è avvenuto pressoché ovunque, lasciando ai movimenti populisti e xenofobi la polemica e la difesa (per quanto deformata) dei valori e delle esigenze degli “autoctoni”, persino la bandiera della convivenza basata sulla reciproca accettazione. Così siamo entrati in una terribile morsa: terrorismo islamico da una parte, intolleranza nazional-razzista dall’altra. E’ possibile uscirne? E’ chiaro che se non ne usciamo non resiste il nostro “modello di vita” basato su libertà, uguaglianza, fratellanza, sugli inviolabili diritti umani sanciti dalla carta dell’Onu. Ma siamo sinceri: nessuno sa come fare.

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