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Ecco i sussurri giustizialistici di Antonio Ingroia a Beppe Grillo sulla lotta alla corruzione

Marco Travaglio, Antonio Ingroia e Antonio Di Pietro

Un po’ distratti anche dal ponte festivo della Liberazione – l’unico tipo di ponte esente in Italia dal rischio di crolli – non ci siamo accorti della crescente corte del mondo giudiziario a Beppe Grillo e al suo movimento. Altro che, in senso inverso, la corte che Grillo ha tentato di fare alla Chiesa tramite il direttore di Avvenire ottenendo l’effetto contrario grazie – una volta tanto – all’altolà di monsignore Nunzio Galantino, segretario generale della Conferenza Episcopale Italiana. Che ha avuto il buon senso – una volta tanto, ripeto – e la tempestività di contestare non solo o non tanto lo spazio messo a disposizione di Grillo dal giornale, sino a prova contraria, dei vescovi italiani con una lunga intervista, quanto il commento fattone su un altro quotidiano – il Corriere della Sera –dal direttore dello stesso Avvenire, Marco Tarquinio. Il quale si era spinto, benedett’uomo, in uno slancio di vocazione missionaria, a riconoscersi nei tre quarti, addirittura, delle posizioni grilline sulle più importanti questioni italiane, e forse anche mondiali.

Già comparso al recente convegno di Ivrea in memoria di Gianroberto Casaleggio, e d’incoraggiamento per le ambizioni del figlio Davide, con un magistrato in servizio fra i relatori, Sebastiano Ardita, e con l’ex magistrato Antonio Di Pietro fra il pubblico, accorso ad annusare l’aria di un movimento che aveva saputo raccogliere più consensi di lui con l’allora sua Italia dei Valori, il mondo giudiziario ha appena annunciato un contributo d’idee e di proposte proprio ai grillini. Che sono stati esplicitamente indicati come possibili suoi interlocutori da Antonio Ingroia, un altro ex magistrato che ha tentato con ancora minore fortuna del suo amico e collega Di Pietro di investire in politica, con la sua fallimentare Azione Civile nelle elezioni del 2013, la notorietà, il successo, il credito e quant’altro guadagnatosi con la toga addosso. Penso, per esempio, a quando il pubblico ministero Ingroia si scontrava addirittura col presidente della Repubblica Giorgio Napolitano per la gestione delle indagini e dello stesso processo sulle presunte trattative fra lo Stato e la mafia stragista di 25 anni fa. Uno scontro tuttavia finito davanti alla Corte Costituzionale a vantaggio del capo dello Stato, pur fra le critiche e lo stupore dell’illuminatissimo presidente emerito della Consulta Gustavo Zagrebelsky. Che avrebbe forse dato ragione a Ingroia e, più in generale, alla Procura palermitana.

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Ingroia, ora felicemente avvocato e meno felicemente amministratore, indagato, di un ente siciliano affidatogli a suo tempo dal governatore Rosario Crocetta, ha elaborato con Nino Di Matteo, succedutogli alla guida dell’accusa nel lunghissimo processone in corso a Palermo sulle già ricordate e presunte trattative fra lo Stato e la mafia, una proposta di legge anticorruzione che il presidente dell’omonima Autorità, Raffaele Cantone, neppure se la sogna. E’ una proposta chiamata “La Torre bis” in onore di Pio La Torre, il dirigente comunista siciliano ucciso dalla mafia nel 1982, che intende applicare agli indagati per corruzione e concussione il sequestro preventivo dei beni già in vigore per gli indagati di mafia, se non riescono a dimostrare – con un’inversione quindi della ricerca delle prove – la liceità dei loro soldi e delle altre loro proprietà.

La proposta è forte, di certo. E Ingroia, che la illustrerà di persona con Di Matteo venerdì a Palermo, e dove sennò?, ha tutte le ragioni, come vedremo, per considerarla fatta su misura per piacere ai grillini e farla portare avanti da loro nelle aule parlamentari, specie se questa legislatura ormai in esaurimento ordinario, per non parlare del logoramento straordinario del clima politico, dovesse prolungarsi ben oltre la scadenza di febbraio o marzo del 2018 grazie ad una guerra dichiarata apposta, e  per niente dispendiosa, alla Repubblica di San Marino.

Con questo tipo di proposta di Ingroia, Di Matteo, Grillo e altri volenterosi si potrebbero eseguire sequestri di valore pari a chissà quali e quante leggi finanziarie. Risolveremmo d’incanto il problema del nostro mastodontico debito pubblico e tutte le complicazioni ch’esso ci procura nei rapporti con Bruxelles e Berlino. L’Italia diventerebbe  -tenetevi forte – il Paese più virtuoso di tutta l’Unione Europea.

Se si facesse il censimento patrimoniale, diretto e indiretto, delle famiglie di tutti i dirigenti pubblici, amministratori di enti, nazionali e locali, e si inondassero le Procure di segnalazioni di corruzione o concussione a loro carico, non basterebbero i forzieri della Banca d’Italia a tenere in custodia soldi e documenti sequestrati in via preventiva. E magari vendibili e spendibili grazie a qualche comma infilato nella prima legge finanziaria di passaggio per fronteggiare le emergenze, salvo rimborsi a babbo morto, con i tempi ordinari dei nostri processi. Un’idea formidabile. Pensate un po’ quanto dovremmo e potremmo essere grati ad Ingroia per la decisione presa a suo tempo di lasciare la magistratura per mettere meglio a frutto la sua sapienza e, soprattutto, fantasia.

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Che questa trovata di Ingroia formidabile – ripeto – sia fatta apposta per calzare perfettamente ai piedi, alle mani e alla testa di Grillo lo ha scoperto lo stesso ex magistrato siciliano consultando – credo di aver capito – gli archivi elettronici del movimento delle 5 stelle. Dove egli ha scovato la proposta non so di quale deputato o senatore eletto nelle liste grilline, ma temo poi uscitone per una delle tante e ormai usuali beghe interne al movimento, in cui  si propone di applicare già agli indagati per abuso d’ufficio il sequestro preventivo dei beni  consentito oggi ai danni dei mafiosi.

Immagino la faccia del povero Pier Luigi Bersani. Che non sa cosa si sia perso all’inizio di questa diciassettesima legislatura inseguendo un aiutino dei grillini per allestire il suo governo “di minoranza e di combattimento”, presentarsi alle Camere e strappare ai parlamentari pentastellati non dico un vero e proprio voto di fiducia, ma almeno l’astensione, anzi l’assenza dall’aula del Senato nel momento di dire sì o no.

Poi, dovendo guadagnarsi l’appoggio dei grillini giorno per giorno, ora per ora, minuto per minuto, secondo per secondo, Bersani avrebbe potuto o dovuto ingoiare persino il sequestro preventivo dei beni per gli indagati di abuso d’ufficio. Che è un reato declassato una volta dallo stesso Bersani, in difesa di un sindaco dell’allora sua “ditta”, il Pd, incorso nell’avviso di garanzia della Procura di turno, ad un banale incidente di percorso per un amministratore locale. Un incidente, anzi, che lui paragonò, e forse non a torto, lo riconosco, ad un sovraccarico contestato dalla Polizia Stradale o dai Vigili Urbani all’autista di un camion.

Bei tempi, quelli in cui Bersani riusciva ancora a ragionare così e non prendeva cappello per qualsiasi cosa di storto gli toccasse di vedere o avvertire, sino a cambiare ditta rovesciandone le insegne.

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