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La vera manovra (poco europeistica) che serve all’Italia

Francia

“Aumentare o no l’IVA? E se si, per fare cosa? Tagliare l’IRPEF o il cuneo fiscale?”: sono queste le domande che agitano i pensieri del Ministro Padoan e del Presidente Gentiloni. Ma non solo. A parte Matteo Renzi, preoccupano un po’ tutti gli italiani, alle prese con una crisi che non sembra finir mai. E forse non finirà, se continueremo a ragionare al margine, perdendo di vista la grande latitudine della foresta che circonda la società italiana. Un labirinto in cui ha poco senso scrutare il singolo albero, quando intorno è buio pesto. Che l’IVA non debba aumentare è cosa evidente. L’Italia soffre di astenia. I consumi ristagnano. Gli investimenti ne seguono le orme. I prezzi sono fermi ed il Pil non cresce, se non per la brezza che spira sul fronte delle esportazioni.

Siamo finiti, da tempo, in un cul de sac, che impedisce di vedere la luce in fondo al tunnel. Insistere nell’accanimento terapeutico può essere solo la ricetta di un “dottor morte”. Conosciamo le obiezioni: il deficit strutturale italiano è fuori controllo. Occorre quindi provvedere con opportune manovre correttive. Il diktat europeo cui è necessario conformarsi. Chi ragiona in questo modo rimane prigioniero di un pregiudizio, che gli impedisce di cogliere l’essenza stessa della realtà europea. Basta guardare ai dati forniti dalla stessa Commissione, e si vedrà che su 19 Paesi solo 8 – Germania in testa – sono in grado di rispettare le regole del fiscal compact.

Nel 2016 il deficit strutturale italiano, secondo calcoli per altro contestati in sede internazionale, è stato pari all’1,6 per cento. Quello francese al 2,5 per ceto. Quello spagnolo al 3,8 e quello belga al 2,2. Solo per considerare le realtà più simili. L’Italia sarebbe, quindi, in buona compagnia. Se non fosse ancora sommersa dalle macerie di una lunga crisi. Tra i Paesi precedentemente indicati, l’Italia è l’unica a non averla superata. Il suo prodotto interno, in termini reali, è ancora 6,4 punti sotto il valore del 2008. Quando la Francia è più 5,2, la Spagna ha raggiunto quell’agognata meta ed il Belgio l’ha superato con un sonante 6,6 per cento. Si può allora negare che, sul piano sostanziale, non ricorrano quelle “circostanze eccezionali” che consentono una deroga al Patto di stabilità?

Ma c’è il debito che sale: si può subito dire. E questo è il vero problema. Ma può diminuire il rapporto debito – Pil, se il denominatore, ossia il Pil in termini nominali, avanza a passo di lumaca. E se le spinte deflazionistiche impediscono ai prezzi di crescere in modo pro-attivo? Ecco allora che pensare di aumentare l’IVA, sarebbe gettare benzina sul fuoco. Certo contribuirebbero a far crescere l’inflazione, ma sarebbe come offrire ad un assetato una goccia di champagne.

Se questi sono i nodi reali, la prospettiva complessiva non può che essere diversa. Occorre prendere atto che qualcosa si è rotto all’interno dei meccanismi europei. L’ipotesi di una “convergenza”, guidata dal rispetto di regole uniforme, ha ceduto il passo ad una crescente “asimmetria”. Vi sono Paesi che si avvantaggiano della forzata “livella”, per dirla a la Totò, ed altri che regrediscono. Per cui la soluzione non può che essere la diversità delle politiche economiche, per far sì che il passo degli ultimi acceleri per ridurre le relative distanze.

Per un certo numero di anni, l’unica cosa che l’Italia può permettersi è il solo rispetto delle regole di Maastricht. Vale a dire contenere il deficit di bilancio entro il vincolo del 3 per cento. Il che significa abbandonare la “follia” del fiscal compact e le sue inutili vessazioni. Deve farlo alla luce del sole. Con una dichiarazione pubblica ed un sottostrato d’analisi che dimostri come questa sia l’unica via d’uscita. L’occasione sarà data dalla trattativa per inserire definitivamente quelle regole nell’ordinamento giuridico europeo, che dovrà avvenire entro il 2017. Matteo Renzi ha già minacciato di porre il veto, ma forse non è necessario giungere a tanto.

L’articolo 16 del Trattato prevede che vi sia una preventiva valutazione dell’esperienza compiuta, alla luce della quale decidere la strada da seguire. Per l’Italia sarà quindi sufficiente chiedere un rinvio di qualche anno prima del completo recepimento. E dimostrare che solo in questo modo sia possibile muoversi per recuperare quella filosofia della “convergenza”. Che è la madre del sogno europeo. L’eventuale accoglimento di questa proposta farebbe cadere i vincoli ulteriori del fiscal compact. E ridare dignità alla politica economica.

E’ giusta e razionale questa posizione? Per rispondere occorre considerare che un eventuale allentamento del vincolo di bilancio – nei limiti del 3 per cento – farebbe crescere il Pil nominale più di quanto cresce il debito. Di conseguenza il relativo rapporto subirebbe una contrazione. Di quanto? Dipenderà dalle concrete scelte di bilancio. Se i maggiori margini saranno utilizzati esclusivamente per ridurre il carico fiscale e per rilanciare gli investimenti – quindi non per bonus o altre “furbizie” – il Pil crescerà ad un ritmo maggiore. E quindi il sentiero di rientro sarà più rapido.

Ma fin quando potremo permetterci una politica così espansiva? Almeno fino al punto in cui non avremo raggiunto l’equilibrio delle partite correnti della bilancia dei pagamenti. Che il DEF prevede in attivo (circa 2,6 punti di Pil) da oggi al 2020. Questo parametro, ai fini di una corretta politica economica, è essenziale. Il loro attivo altro non è che la dimostrazione che il sistema economico cammina a bassa velocità rispetto al suo potenziale. Accumula crediti nei confronti dell’estero: risorse che non sono impiegate in modo produttivo, ma ristagnano nel pantano finanziario. Salvo riprendere la via dell’estero sotto forma di investimenti di capitale o di portafoglio, grazie all’azione dei fondi di investimento.

Si assiste così al paradosso di un Paese che produce poco, è sommerso dai debiti, stretto nella morsa di una disoccupazione dilagante, ma è capace di avere un eccesso di esportazioni non solo di merci, ma di capitali e di uomini. I nostri giovani. E tutto perché un’ortodossia pre-keynesiana ha preso il sopravvento per trasformarsi in un nuovo dogma.

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