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Pensioni: ingiustizia, per ora, è fatta

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La Corte dei Conti della Regione Basilicata (Giudice monocratico dott. Massimo Gagliardi) ha respinto il ricorso sponsorizzato dalla FEDER.S.P.eV. e dalla CONFEDIR avente ad oggetto la ridotta indicizzazione, nel biennio 2012 e 2013, delle pensioni di importo tra 3 e 6 volte il minimo INPS, ovvero il blocco, nello stesso periodo, della indicizzazione per quelle oltre le 6 volte il minimo INPS, ai sensi dell’art. 24, c.25, della legge Fornero 214/2011 e successive modificazioni, in aperto contrasto con lettera e spirito dei contenuti della sentenza 70/2015 della Corte costituzionale, avallando così le norme della legge 109/2015, che dei principi e significati della sentenza anzidetta “se ne è lavata le mani”, alla moda di Ponzio Pilato.

Come è possibile sentenziare in modo così anomalo? Purtroppo è possibile se si parte da premesse francamente errate. Infatti:

1. il Giudice in questione mostra di credere al “fine dichiarato” dal legislatore della legge 109/2015, cioè di voler “dare attuazione ai principi enunciati nella sentenza della Corte costituzionale 70/2015”. In realtà i principi della sentenza anzidetta, che ha dichiarato ab initio la illegittimità costituzionale dell’art. 24, c.25, della legge 214/2011 Monti-Fornero facendo rivivere i parametri di indicizzazione della legge 388/2000, sono disattesi nei tempi e nella misura già per quanto riguarda la perequazione delle pensioni tra 3 e 6 volte il minimo INPS, mentre sono totalmente calpestati per quanto riguarda la indicizzazione (negata del tutto) delle pensioni oltre le 6 volte il minimo INPS. Insomma, il Giudice crede al “fine dichiarato” dal legislatore, anziché valutare, nel merito, le disposizioni di legge in attuazione di un preciso giudicato costituzionale, che risulta pertanto, in questo caso, manifestamente violato. Peraltro è abituale che il nostro legislatore si nasconda dietro formule ipocrite, tipico il caso della affermazione secondo cui lo “Stato tutela la nascita dal suo inizio”, quando si trattava (art. 1 della legge 194/1978) di normare la interruzione volontaria di gravidanza;

2. anche laddove la legge 109/2015 mostra di dare attuazione, parziale e tardiva, ai principi della sentenza 70/2015, limitatamente però a beneficio dei percettori di pensioni tra 3 e 6 volte il minimo INPS, incorre nei seguenti abusi: a) rispetto alle variazioni ISTAT certificate nel 2012 (+ 2,7%) e nel 2013 (+ 3%), ai pensionati tra 3 e 4 volte il minimo INPS è stato riconosciuto a titolo di perequazione solo il 40% (anziché il 90%), ai pensionati tra 4 e 5 volte il minimo INPS solo il 20% (anziché il 90%), ai pensionati tra 5 e 6 volte il minimo INPS soltanto il 10% (anziché il 75%); b) oltre ai “tagli” anzidetti, che sono impropri ed ingiustificati rispetto ai percettori di pensioni fino a 3 volte il minimo INPS (per i quali la perequazione è stata riconosciuta in modo pieno, cioè al 100%), tale categoria di pensionati si è poi vista penalizzata anche nel trascinamento, ai fini del computo dei successivi incrementi pensionistici, dei miglioramenti parziali concessi a titolo di perequazione nel 2012 e 2013, il cui quantum è stato contingentato, nel biennio 2014 e 2015, al solo 20% di quanto già loro riconosciuto nel biennio precedente, ed al solo 50% a regime, cioè a partire dal 2016; c) non una parola è stata spesa, nella legge 109, su interessi e rivalutazione, pur dovuti sulle somme percepite in ritardo dai pensionati in questione. Su tutte queste anomalie il Giudice non interviene, a dimostrazione di non essersi “calato” approfonditamente nella materia previdenziale in esame;

3. le sentenze gemelle della Corte dei Conti della Regine Basilicata in oggetto (che impugneremo in tutte le sedi giurisdizionali possibili), trincerandosi dietro assiomi indimostrati ed indimostrabili, giungono alla conclusione che gli interventi del legislatore in materia di riduzione o blocco della perequazione automatica delle pensioni rispetterebbero i criteri della copertura decrescente a mano a mano che aumenta il valore della prestazione, della gradualità dei sacrifici imposti, della ragionevolezza normativa, della proporzionalità tra retribuzione goduta nell’attività lavorativa e pensione maturata, ecc. Vediamo allora alcuni degli assiomi, strumentalmente usati per sostenere la legittimità dello sfregio maggiore fatto ai contenuti della sentenza 70/2015, cioè la riproposizione della norma già censurata e dichiarata incostituzionale a danno dei percettori di pensioni oltre le 6 volte il minimo INPS:

• in questo caso, non si tratta solo di “copertura decrescente della perequazione automatica”, ma di blocco completo della indicizzazione, peraltro già intervenuto nel 2008, nuovamente imposto nel 2012 e 2013, sostituito successivamente da un abbattimento della percentuale di perequazione di più del 50% e sull’intero importo della pensione nel periodo 2014 – 2017 ( in totale la penalizzazione ha riguardato 7 degli ultimi 10 anni);

• l’intervento legislativo sul blocco o riduzione della perequazione non è “disposizione temporanea e di limitata misura”, ma incide permanentemente sui ratei delle pensioni degli anni successivi ai blocchi o alle riduzioni stessi (anche qualora avessero riguardato un solo anno, anziché una pluralità di anni, come in questo caso) e la misura della penalizzazione può andare da alcune centinaia di euro mensili a migliaia di euro, specie laddove si è cumulato il blocco rivalutativo ai cosiddetti “contributi di solidarietà”, che hanno inciso sulle pensioni più elevate ininterrottamente dal 2014 al 2016;

• non è vero che le pensioni di maggiore importo “presentano margini di resistenza all’erosione determinata dal fenomeno inflattivo”, in ragione del fatto che sulle pensioni più elevate incide un prelievo fiscale progressivamente crescente in contemporanea con una indicizzazione dell’assegno, già in via ordinaria, riconosciuta in percentuale decrescente;

• e che “gradualità di sacrificio” imposto ai pensionati può mai rinvenirsi tra chi ha percepito (e continua a percepire) una rivalutazione al 100% (principio del “tutto”) e chi allo 0% (principio del “nulla”), con la possibile aggravante del contemporaneo esproprio di un contributo coatto cosiddetto “di solidarietà”, capace di rendere la pensione in godimento decurtata non solo in termini reali, ma addirittura nominali?

• e come può definirsi “eccezionale” l’intervento punitivo del legislatore sulla indicizzazione delle pensioni, quando è stato reiterato in 7 degli ultimi 10 anni? E come può il nostro sistema previdenziale essere etichettato “in eccezionale difficoltà di tenuta”, quando i conti della previdenza pubblica italiana sono in perfetto equilibrio (come dimostrato dagli studi ed analisi recentissime del Prof. Alberto Brambilla), se solo non fossero stati appesantiti da interventi impropri e sgraziati del legislatore, che ha gravato sul bilancio INPS gli oneri di provvedimenti di chiara natura assistenziale, pur in assenza di adeguate contribuzioni e/o coperture specifiche;

• dove, poi, il “ragionamento” del Giudice monocratico perde ogni criterio di logica è quando, affannandosi nel non vedere “l’effetto discriminatorio” prodotto dall’intervento della legge 109/2015 (come della legge 214/2011) in materia di deindicizzazione delle pensioni in godimento: a) riconosce tuttavia che il prelievo “non colpisce tutta la platea dei pensionati”; b)…ma ” pone gli opportuni calibrati vincoli all’interno della stessa, secondo criteri non arbitrari, di tipo reddituale…”; c) a danno “ di coloro che fruiscono di una prestazione più elevata, essendo stati titolari di un regime, al tempo, più favorevole”. Amor del vero impone invece di chiarire che l’effetto discriminatorio è più che evidente, agendo esso sia all’interno della stessa categoria dei pensionati, che hanno avuto nel tempo un analogo regime previdenziale (calcolo della pensione con meccanismo totalmente o prevalentemente retributivo, a prescindere dal fatto che siano stati gratificati o no dal mantenimento della indicizzazione, realtà che evidentemente è sfuggita al Giudice), sia tra i pensionati ed i titolari di redditi non da pensione. Inoltre i criteri della deindicizzazione sono capricciosi (quindi arbitrari), infatti distinguere tra fasce di importo delle prestazioni indicizzate, e fasce totalmente escluse, può determinare (come determina) il paradosso secondo cui chi ha avuto nella vita lavorativa lavoro più qualificato e maggiore retribuzione e contribuzione previdenziale può poi trovarsi a godere di una misura inferiore di trattamento pensionistico, scardinando così l’altro principio costituzionale (oltre all’adeguatezza di cui all’art. 38 Cost.), che prevede la necessaria proporzionalità tra retribuzione goduta e pensione, intesa come retribuzione differita (art. 36 Cost.). Infine, il Giudice finisce di cadere in una sorta di “trappola”, quando cioè giustifica un criterio “di tipo reddituale” a sostegno del blocco della indicizzazione delle pensioni di maggiore importo, assimilando di fatto la loro mancata rivalutazione ad una pretesa di natura tributaria, ma in questo caso non verrebbero rispettati i due principi costituzionali ( di cui all’art. 53 della Cost.), cioè la necessaria universalità del prelievo e la progressività dello stesso ( invece, nel caso di specie, c’è chi concorre e chi no alle necessità dello Stato e non c’è traccia di ” progressività” tra chi percepisce il 100% della rivalutazione dovuta delle pensioni e chi lo 0%);

• infine, dove può mai ravvisarsi, nei provvedimenti di deindicizzazione in esame, quel doveroso bilanciamento tra le esigenze del bilancio dello Stato e la “ tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali” della persona? Come è quindi possibile e giustificabile che lo Stato, per tentare di correggere i propri deficit di bilancio, si rivalga sui diritti acquisiti e consolidati dei pensionati (categoria debole, per definizione), anche a costo di vilipendere la Costituzione, piuttosto che evitando gli sprechi e le regalie ( di tipo elettoralistico, ad esempio), nonché combattendo la corruzione politica (che è tanta parte della mala-gestione della cosa pubblica), l’evasione, le ruberie, le tangenti, le complicità, i privilegi ingiustificati, gli illeciti arricchimenti, la illegalità diffusa, ecc.? Ognuno degli obiettivi anzidetti sarebbe in grado di acquisire allo Stato risorse ben maggiori di quelle che possono derivare dal “tassare due volte” i pensionati che, lo ricordo, hanno già il più alto carico fiscale in Italia (IRPEF, addizionali regionali e comunali, ecc.), come nei confronti degli altri Paesi europei, senza peraltro godere di alcun privilegio fiscale, con riferimento ai titolari di pensioni medio-alte, i più tartassati.

Con le premesse fuorvianti sopra evidenziate, le sentenze in esame non potevano che risultare irrimediabilmente immotivate ed ingiuste. In definitiva il Giudice dott. Massimo Gagliardi è incorso, nella pronuncia delle due sentenze analizzate, nei seguenti principali “inciampi”:

• nell’ansia di difendere “comunque” gli interventi scomposti del legislatore in materia previdenziale, forse spinto dalla generosa volontà di impersonare un novello Robin Hood, ha finito per trasformarsi in una sorta di “legislatore di seconda istanza”, al punto di ipotizzare l’esistenza di un principio costituzionale di “pensione sufficiente”, non meritevole quindi di essere “adeguata”, principi e criteri che non sono né nella nostra Carta, né nella sentenza della Corte n. 70/2015;

• ha finito per attribuirsi prerogative che non gli sono proprie, quali ad esempio di ergersi ad “interprete autentico” dei contenuti e significati della sentenza 70/2015 della Corte costituzionale, per di più su una materia così delicata e sensibile, senza avere l’umiltà di trasmettere gli atti alla Consulta per le decisioni di propria e specifica competenza.

Per fortuna, in tanto disordine, c’è da rilevare che la maggioranza delle Corti regionali dei Conti, da noi adite, ha recepito le buone ragioni delle lagnanze dei pensionati, correttamente rappresentati dalla FEDER.S.P.eV. e dalla CONFEDIR, così da aver già trasmesso alla Corte costituzionale gli atti (prima di decidere nel merito sul contenzioso da noi sollevato), avendo riconosciuto la denunciata questione di legittimità costituzionale “non manifestamente infondata”.

Speriamo ora che i Giudici della Corte si ricordino che il loro compito istituzionale è quello di garantire il rispetto e l’attuazione dei principi costituzionali vigenti, piuttosto che porsi in servile ossequio nei confronti dei Partiti e dei Parlamentari, da cui peraltro hanno ricevuto la nomina, ma rispetto ai quali non debbono in alcun modo, ora, sentirsi “obbligati”.

Michele Poerio, Presidente Nazionale FEDERSPeV, Segretario Generale CONFEDIR
Carlo Sizia, Comitato Direttivo Naz.FEDERSPeV

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