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Smartworking, è la formazione che fa la differenza

Di Augusto Bisegna e Carlo D’Onofrio
sindacati

Il prossimo varo dello Statuto del Lavoro Autonomo, che attende solo il sigillo dell’aula del Senato per diventare legge, segna una tappa fondamentale anche per l’evoluzione dello smartworking. Il cosiddetto lavoro agile è stato finora materia di contrattazione tra aziende e sindacati. Nel tempo la casistica si è allargata notevolmente e si può dire che ormai, almeno per ciò che riguarda le grandi imprese, lo smartworking si avvia a divenire pressi consolidata. Tralasciando il terziario, che in un certo senso ha fatto da pioniere, basta citare, per limitarsi al settore industriale, gli accordi conclusi alla Gm Powertrain di Torino, alla Endress Hauser di Milano o alla Micron Tech. Da ultimo è stata l’Enel a chiudere un’intesa che consentirà a 7mila dipendenti di lavorare per un giorno alla settimana fuori ufficio.

Ma, appunto, sempre di prassi si tratta, mancando ancora un quadro normativo di riferimento. Ora che il quadro appare delineato si tratta di vedere se ciò sarà di stimolo ad un’ulteriore avanzata dello smartworking nel mondo del lavoro. Le nuove regole fissano tra l’altro alcuni principi che anche i sindacati tra cui la Fim Cisl  avevano segnalato da tempo come non aggirabili: identità di retribuzione a parità di mansione tra chi lavora da remoto e chi lo fa all’interno dell’azienda, diritto alla disconnessione, rispetto delle normative sulla sicurezza. Restano invece alcune criticità: manca una clausola transitoria che colleghi le intese vigenti con la nuova disciplina e, soprattutto, manca una chiara identificazione delle responsabilità del datore di lavoro in materia di lavoro e sicurezza (ma sul punto il governo si è impegnato ad emanare un circolare che sciolga il nodo). A ben vedere, però, manca ancora un elemento per dire che il quadro è completo. Forse il testo in discussione non rappresenta il veicolo appropriato o forse è difficile (e magari nemmeno auspicabile) pensare ad una legge in grado di regolare la materia, materia che probabilmente sarebbe meglio lasciare al libero gioco delle parti attraverso la contrattazione. Sta di fatto che un grande assente c’è: si chiama formazione.

Eppure nel dibattito sull’applicazione delle nuove tecnologie al mondo del lavoro, tema particolarmente urgente nel momento in cui si dà attuazione al piano del governo su Industria 4.0, la formazione viene sempre posta in cima alla lista delle priorità. E non a caso. L’accento finora è stato posto sulle tecnologie e sugli incentivi concessi alle imprese per procurarsele. Ma l’impressione è che manchi una riflessione organica sui riflessi che esse avranno sul lavoro e sulla sua organizzazione. La discussione che si è sviluppata durante l’ultimo World Economic Forum in gennaio ha messo in evidenza che a livello globale entro il 2020 la rivoluzione digitale potrebbe cancellare sette milioni di posti di lavoro e crearne appena due. L’Italia sembra invece al riparo da conseguenze così vistose: i nuovi posti di lavoro dovrebbero bilanciare quelli persi. Ma è evidente che stime del genere sono tutto fuorché definitive. Ad esempio non possono tener conto del forte mismatch tra competenze dei lavoratori e necessità delle imprese di cui soffre il mercato del lavoro italiano. Per questo la formazione può fare la differenza, anche per quanto riguarda lo smartworking. Il lavoro agile ha sicuramente ampi spazi di crescita, ma serve innovazione sul piano tecnologico e sulla cultura organizzativa e, al tempo stesso, investimenti che favoriscano un ecosistema 4.0 nel quale ci sia una connessione di rete efficiente e veloce in ogni area del nostro paese, oltre a spazi privati di coworking.

Cambiamenti così profondi dell’organizzazione del lavoro, inoltre, impongono anche un’evoluzione delle tutele. Tra le quali rientra, oggi ancor più che in passato, il diritto alla formazione. Proprio per questa ragione i metalmeccanici si sono mossi per tempo: nel contratto nazionale, infatti, Fim Fiom e Uilm hanno definito il diritto soggettivo alla formazione.

LA FOTOGRAFIA

Nell’ultima ricerca dell’Osservatorio sullo smartworking del Politecnico di Milano, nato nel 2012 proprio all’apparire di questo fenomeno, si stima che nel 2016 circa 250 mila lavoratori, cioè il 7% del totale di impiegati, quadri e dirigenti, hanno operato in modalità “smart”; hanno dunque potuto godere di un certo margine di discrezionalità quanto alle modalità con cui svolgere il proprio lavoro in termini di luogo, orario e strumenti utilizzati. Sempre nel 2016 i progetti di smartworking hanno interessato il 30% delle grandi imprese. Numeri ancora piccoli rispetto al nostro sistema produttivo, ma che tracciano una tendenza chiara sull’evoluzione dell’idea di prestazione del lavoro, una tendenza all’interno della quale le “mitiche 8 ore” rischiano di essere un vincolo aggiuntivo che penalizza il lavoratore piuttosto che un fattore di libertà e organizzazione del proprio tempo, una carta da spendere, ad esempio, per conciliare meglio l’attività lavorativa con le proprie esigenze personali e familiari.

Sempre secondo l’Osservatorio sullo smartworking del Politecnico di Milano, i vantaggi di questa modalità di lavoro non si fermano solo al work life balance. I riflessi si avvertono anche sulla produttività, il cui aumento medio per lavoratore è stimato attorno al 5%. A ciò vanno aggiunti i risparmi, che per le imprese italiane potrebbero ammontare a 10 miliardi, cui vanno sommati quelli derivanti dalla riorganizzazione degli spazi di lavoro (1,5 miliardi) e dalla flessibilità di orario e mobilità (8.6 miliardi). I vantaggi dello smartworking, dunque, sono notevoli anche sulla sfera  collettiva, in termini di risparmio energetico e di maggiore cura dell’ambiente.

LA VIA DELLA CONTRATTAZIONE

Ovviamente ciò comporta e comporterà un cambio di paradigma sull’organizzazione del lavoro, di cui il sindacato ma anche le imprese non possono non tenere conto. In questo senso ogni tentativo di regolamentazione legislativa – anche quello in corso – non può che limitarsi a fornire le linee d’indirizzo sulle quali va però innestata la contrattazione nelle singole imprese. Solo la contrattazione decentrata, infatti, può rispondere alle reali esigenze di lavoratori e imprese. Lo smartworking può assumere quindi la dimensione di innovazione organizzativa e divenire uno strumento concreto di conciliazione tra famiglia, vita privata e lavoro. A questi diritti  vanno poi agganciati quello della libertà sindacale, quelli relativi alla possibilità di interazione con il resto dei lavoratori e quello alla disconnessione e alla privacy, inclusa la protezione dei dati.

Sulla stessa falsariga, le politiche di work life balance vanno immaginate come rivolte non solo alle lavoratrici, ma sempre di più possono e debbono assumere una connotazione trasversale, senza distinzioni di genere, per agevolare pari opportunità professionali e familiari. In alcune realtà lo smartworking può inoltre favorire l’inserimento dei lavoratori disabili. È chiaro che, pure in questo campo, la contrattazione aziendale è quella che risponde meglio alle esigenze di imprese e lavoratori perché indicativa di relazioni industriali mature e improntate alla partecipazione. Il nuovo contratto dei metalmeccanici, per inciso, ha fatto su questo versante un grande passo avanti, istituendo i comitati di consultivi nelle grandi aziende, organismi nei quali i sindacati potranno far sentire la loro voce sulle scelte strategiche. Al tempo stesso il testo apre ad una futura sperimentazione delle diverse modalità di smartworking.

 

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