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Papa Francesco, Thomas Mann e Silvio Berlusconi

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Dico che non è “guerra di religione” perché temo, usando l’espressione, di finire col promuoverla: sono in molti a pensarla così, tra cui lo stesso Papa Francesco (come ha ribadito nel suo ultimo viaggio in Egitto). Tommaso d’Aquino lo chiamerebbe pium mendacium, la buona menzogna. Ti faccio credere il falso, ma a fin di bene: scelta moralmente lecita, tra gli altri, per Benedetto Croce, Dietrich Bonhöffer e Paul Feyerabend. Un’altra tradizione, che fa riferimento soprattutto ad Agostino d’Ippona e a Immanuel Kant, ritiene invece che la menzogna sia sempre e in sé un male, anche quando lo scopo è nobile o altruistico. Infatti, essa viola quella richiesta e aspettativa di verità che è il requisito basilare di un’etica della comunicazione. Quella della valutazione della bugia è una controversia che attraversa tutta la storia della Chiesa. Può quindi perfino accadere che un pontefice gesuita decida di avvalersi, per negare la natura religiosa del conflitto con l’islam, della dottrina di un frate domenicano.

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“Noi siamo un popolo dall’anima potentemente tragica, contrario alle cose prosaiche e consuete, e tutto il nostro amore va al destino, un destino pur che sia, magari la rovina che infiamma il cielo con la rossa vampa d’un crepuscolo degli Dei!”. È un passo del Doctor Faustus di Thomas Mann. Come ha osservato Cesare Garboli, a questa rappresentazione dell’anima tedesca -in termini insieme nibelungici e dionisiaci- deve molto la mitologia del teutonico che si è creata nel corso del tempo (Ricordi tristi e civili, Einaudi, 2001). Si pensi alla sordità e alla cecità della destra bavarese di fronte alla crisi europea. Difficile vedervi la passione del sublime, l’idolatria del destino, le fiamme della catastrofe, il naufragio degli Dei. Facile leggervi, invece, una fredda e inflessibile difesa degli interessi nazionali della Germania, difesa che non esprime nessuna fatalità e nessuna tragedia. Che cosa c’è, infatti, di più “prosaico e consueto”?

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Da Putin alle olgettine, il dono per Silvio Berlusconi è stata la materia prima del suo sistema di alleanze politiche come del suo harem. In un saggio di Marco Revelli (Povertà della politica, politica della povertà, in Berlusconismo, a cura di Paul Ginsborg e Enrica Asquer, Laterza, 2011), si può leggere un’analisi magistrale della munificenza del premier. Essa è stata l’elemento distintivo del suo profilo di leader, che caratterizza quelle forme di personalizzazione patologica del potere iscritte da Max Weber nella categoria del “patrimonialismo”.

Chiunque però conosca anche solo superficialmente la letteratura sul dono, non ne può ignorare il significato ambivalente o, meglio, ambiguo. Il termine gift vuol dire dono in inglese, ma veleno in tedesco. In effetti, fiabe e miti sono pieni di doni avvelenati, che portano alla rovina chi li riceve. Basta ricordare il cavallo di Troia e il vaso di Pandora, il pomo di Adamo e il bacio di Giuda, la mela di Paride e quella della strega di Biancaneve. Ma talvolta i doni avvelenati, quelli che cementano il reticolo pervasivo delle fedeltà e delle obbligazioni reciproche, possono portare alla rovina anche chi li dispensa. E il Cavaliere ha corso lo stesso pericolo, che segnala il disfacimento di un modello culturale su cui ha costruito buona parte delle sue fortune politiche. Un modello secondo cui nel “dono non ci sono diritti”. Vale a dire che nella sfera pubblica devono dominare i rapporti tra ineguali, in cui si finisce per offrire fedeltà in cambio di protezione, favori in cambio di benevolenza. Un processo in cui si genera su scala di massa servilismo e discrezionalità. Sono due fenomeni – come osserva Revelli- che corrodono profondamente ogni società democratica.

La politique du boudoir di Berlusconi ne è stato l’interprete ideale. Essa ora sembra giunta a un punto di non ritorno. Attenzione, comunque. Non sarà qualche intercettazione pruriginosa o qualche processo contro chi ha “peccato”, più che contro chi ha commesso un reato, a decretarne la fine. Ci vuole qualcuno che spieghi bene agli italiani che è più conveniente una politica dell’eguaglianza. Nel senso che quanto più chi dona e chi riceve stanno su un piede di parità, tanto meno il secondo rischia una soggezione umiliante. Ma oggi, nel nostro Paese, c’è questo qualcuno?

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Il ballottaggio tra Marine Le Pen e Emmanuel Macron secondo l’École freudienne de Paris: “France deuxième tour très œdipien, entre celle qui a tué son père et celui qui a épousé sa mère”.

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