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Vi spiego il groviglio politico sulla legittima difesa

Pur al netto della solita abitudine di schierarsi, violando il ruolo neutrale che gli impone il ruolo di presidente di un’assemblea parlamentare, specie su una legge che le sta arrivando dalla Camera, Pietro Grasso, o Piero, come altri preferiscono chiamarlo più amichevolmente, ha avuto ragione, e facile gioco, a rinfacciare l’utilità del Senato al risegretario del Pd Matteo Renzi. Che come presidente del Consiglio, non avendo la forza politica di proporne l’abolizione, come avrebbe forse preferito, cercò con la sua riforma costituzionale, poi bocciata a grande maggioranza dagli elettori nel referendum del 4 dicembre scorso, di ridimensionarne composizione e  ruolo.

“Per fortuna c’è il Senato”, ha detto Grasso col suo solito, immancabile sorriso, risparmiandosi l’avverbio “ancòra” e commentando la necessità politica appena annunciata da Renzi di far cambiare a Palazzo Madama “il pasticcio” della riforma della legittima difesa approvata a Montecitorio. E che è già passata nell’immaginario collettivo, a torto o a ragione, come la licenza di uccidere di notte, senza rischiare il processo o le spese, il ladro che ti è entrato in casa, o ne sta uscendo di corsa perché scoperto.

Le cose, in verità, non stanno proprio così a leggere bene il testo approvato alla Camera col solito intreccio di emendamenti e compromessi, ma così ormai è stata avvertita dalla gente con l’informazione scritta e parlata e così sarebbe destinata a rimanere se non si facessero modifiche al Senato. Dove però si riaprirebbero tutti i giochi, compresi quelli politici ed elettorali fra i leghisti, che reclamano, con l’aiuto degli ex alleati di centrodestra, compresi i forzisti di Silvio Berlusconi, una licenza ancora più esplicita, e quanti invece vorrebbero garantire maggiormente la discrezionalità del giudice per stabilire la proporzione prescritta dalla legge fra l’offesa, il danno, il pericolo, chiamatelo come volete, e la reazione.

E’ sempre rischioso per il governo o la maggioranza di turno formatasi su una legge alla Camera riaprire i giochi al Senato, dove i numeri sono notoriamente ballerini. E basterebbe l’umore o l’impellente necessità di un senatore a correre a fare la pipì per cambiare il risultato di una votazione.

Già gli antichi romani, del resto, pur non potendo neppure immaginare che cosa sarebbero stati capaci di fare i loro successori, solevano definire “buoni” i senatori ma “cattiva bestia” il Senato.

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Se tanto mi dà tanto, se si dovessero davvero trarre tutte le conseguenze dai fatti, se si volesse applicare al risegretario del Pd Renzi la legge dantesca del contrappasso, alle prossime elezioni egli si dovrebbe candidare prima ancora che a presidente del Consiglio, come mostra ogni tanto di voler fare nonostante il consiglio contrario del suo amico e ormai confessore laico Eugenio Scalfari, a senatore. Dovrebbe preferire alla Camera, considerata delle due assemblee parlamentari la più politica, il Senato, chiamato -come si vede- a correggere gli errori dei deputati. E lui ormai è eleggibile al Senato già dall’11 gennaio 2015, giorno del suo quarantesimo compleanno, essendo questa l’età minima prescritta dalla Costituzione per accedere da parlamentare a Palazzo Madama.

Lo stesso Renzi, d’altronde, con una battuta amara commentò la sera del 4 dicembre la bocciatura della sua riforma costituzionale dicendo che a quel punto si sarebbe meritata per punizione l’elezione al Senato. Dove aveva avuto l’imprudenza di presentarsi come presidente del Consiglio nel 2014, quando non aveva neppure l’età per fare il senatore, augurandosi che quella appena chiesta ai senatori fosse “l’ultima fiducia”. Cui, in verità, ben prima che gli elettori gli bocciassero la riforma costituzionale, che riservava il diritto della fiducia solo alla Camera, Renzi dovette poi ricorrere molte altre volte per vedere approvate a scrutinio palese le sue leggi da una maggioranza, interna al suo stesso partito, tentata di bocciargliele a scrutinio segreto.

Va poi detto che con la rielezione a segretario del Pd, e la riconquista dei poteri in materia di formazione delle liste dei candidati alle elezioni, al buon Renzi è andata davvero bene. Con un altro segretario, specie se fossero rimasti nel Pd con una grossa voce in capitolo personaggi come Massimo D’Alema e Pier Luigi Bersani, al perdente Renzi neppure un seggio senatoriale avrebbero forse lasciato. Gli avrebbero magari applicato la legge del contrappasso mandandolo a fare il presidente dello scampato Cnel, dove il governo del conte Gentiloni ha appena spedito l’ex ministro Tiziano Treu per cercare di rianimarlo, dopo l’anticamera dell’obitorio in cui Renzi lo aveva messo prescrivendone la morte nella già ricordata riforma costituzionale bocciata col referendum del 4 dicembre.

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In attesa che il Senato rimedi al “pasticcio” della legittima difesa uscito dalla Camera, se ne avrà il tempo necessario per rispedirlo corretto a Montecitorio e farlo diventare legge prima della scadenza ordinaria o anticipata della legislatura, col serio rischio quindi che tutto finisca nei cassetti parlamentari, mi auguro che si riprenda dalla delusione la ministra dei rapporti col Parlamento Anna Finocchiaro. Che a sua insaputa, o controvoglia, come preferite, ha partecipato al pasticcio lamentato da Renzi con un emendamento, o qualcosa di simile, per mediare fra le varie posizioni dei partiti della maggioranza, e fra le correnti del suo stesso partito.

Il giorno in cui la Camera ha approvato la nuova norma sulla legittima difesa, e quando già erano arrivate le voci dell’arrabbiatura di Renzi con gli amici al Nazareno, ho visto la Finocchiaro seduta su una poltrona del cosiddetto transatlantico di Montecitorio tutta sola, scura di vestito e di umore. Vi confesso di esserne rimasto dispiaciuto, abituato a vederla sempre in forma e combattiva, e vestita con colori anche vivaci, come quel rosso galeotto che indossava in quell’emporio dove fu fotografata con la scorta che cavallerescamente portava il carrello della spesa. Seguirono polemiche mediatiche e proteste politiche.

L’allora sindaco di Firenze e non ancora segretario del Pd Renzi ne abusò contestando la possibile candidatura al Quirinale dell’allora capogruppo del Pd al Senato e rimediandosi come reazione l’aggettivo “miserabile”. Poi i due, a dire la verità, si conobbero meglio e seppero apprezzarsi reciprocamente. Lei, da presidente della commissione affari costituzionali del Senato, contribuì in modo decisivo alla pur sfortunata riforma costituzionale, condivisa peraltro allora anche dal guardasigilli Andrea Orlando. La cui candidatura a segretario la signora ha preferito poi a quella di Renzi. Di cui sarebbe però azzardato, penso, leggere come una ritorsione il cattivo giudizio espresso sul “pasticcio” della riforma della legittima difesa.

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