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L’attualità di don Lorenzo Milani: rileggere senza distorsioni

Nel contesto delle riflessioni scaturite in questi mesi sulla figura e l’opera di don Lorenzo Milani mi sembra utile riprendere quì un piccolo studio  che diversi anni fa introduceva all’intitolazione di una scuola superiore di Tradate (Varese). Lo studio ha la peculiarità di inserire anche dei brevi confronti tra l’uomo, il messaggio e il metodo del sacerdote toscano con la figura di don Luigi Giussani.

 

Comunicazione dell’1 giugno 1992 in occasione della serata inaugurale per l’intitolazione a don Lorenzo Dilani dell’ITC  di Tradate (Varese)

Roberto Pellegatta – preside ITPA Tradate

1.

Vorrei innanzitutto ringraziare il preside e amico Nicola Zitolo perché, con il suo invito a questa relazione, mi ha offerto l’occasione di tornare su di una figura umana estremamente interessante, che era  per me stata importante ed alla quale da 20 anni non riguardavo con attenzione.   Io credo che oggi Don Milani sia ancora da studiare e approfondire, dopo esaltazioni, deformazioni, mistificazioni e dimenticanze.  Per le riflessioni di questa sera sono debitore ad un lavoro fatto anni fa con alcuni universitari di pedagogia di Bologna e apparso nel 1987 sulla rivista  “Libertà di educazione” alla quale collaboro.

Non pretendo di “interpretare” Don Milani.  E’ difficile razionalizzare la sua esperienza e Don Lorenzo stesso sarebbe stato contrario a ricavare dalla stessa un metodo o delle tecniche  di insegnamento riproducibili dopo di lui.  Fu una evento educativo eccezionale e da un certo punto di vista unicamente legato alla sua personalità, che non ha creato una “scuola” o un movimento educativo, ma che ha segnato la riflessione di molti appassionati ed attenti alla crisi educativa dell’Italia degli anni ’50 e ’60. Desidero quindi solo riportare l’eco che la lettura di lui ha avuto in me. Intravedo l’attualità di Don Milani in tre direzioni:

–  l’attualità del cristiano, visto che il primo libro da lui pubblicato raccontò le “Esperienze pastorali” del prete a  San Donato  a Calenzano del 1958;

–  l’attualità dell’educatore, come emerge soprattutto nelle lettere pubblicate a cura di Gesualdi  (il più appassionato dei suoi alunni) e nella “Lettera ad una professoressa”. Per valutare questa attualità occorre anche tentare di riflettere sul suo “metodo educativo”;

–  l’attualità dell’uomo e della sua testimonianza come appare ancora dalle lettere, comprese quelle alla mamma e dagli scritti o opuscoli inediti pubblicati dalla Cisl di Firenze nel testo “Maestro di libertà”.

Si potrebbero poi rileggere oggi le deformazioni operate sulla sua figura e sul suo messaggio (l’ultima di queste  in  un recente articolo su “Nuova secondaria” a firma di un ispettore in vena di rigurgiti antisessantottini).  Ma a me interessa sinceramente imparare qualcosa da qualcuno ed impararlo per il mio lavoro. Il resto mi sembra  tempo perso.

2.

Cominciamo dall’attualità del cristiano, del prete.  Perchè Don Milani è stato innanzitutto questo, sacerdote profondamente legato a Cristo ed alla Chiesa, nonostante le incomprensioni che subì, molte delle quali (come il suo rapporto con Florit) abbondantemente deformate, in attesa di una giusta rilettura su documenti originali.  Negli anni del seminario un grande Cristo crocifisso occupava la parete della  sua stanza. Di lui mi ha colpito, come profondamente attuale, l’acutezza profetica del giudizio e dell’azione. Ho riletto le sue esperienze  sforzandomi, con i pochi ricordi, di collocarle nella società degli anni cinquanta, che ho conosciuto solo da ragazzo.  Sono gli anni nei quali in Italia, come scriveva Pasolini:  “di colpo era finita la civiltà contadina che durava da 14.000 anni”.  Nel 1958 per la prima volta gli addetti all’industria sorpassano quelli dell’agricoltura.  Ma sono anche gli anni in cui quasi il 100% degli italiani si sposava in Chiesa, c’erano le adunate oceaniche dell’Azione Cattolica (che spesso ricorda nei suoi scritti anche Giulio Andreotti) e la DC di Fanfani il  25maggio 1958 fa il pienone dei voti.  Don Milani in quegli anni percepisce acutamente i segni di una crisi e scrive nello stesso anno:  “Si è voltata una pagina della storia ed i preti non se ne erano neanche accorti”.  Lui  scopre a Calenzano che sotto la certezza di una tradizione  e dietro un certo formalismo c’era il vuoto di convinzioni e di esperienze.  Decide allora di non vivere su finti allori, sulla ripetizione di riti, ma di essere come in missione, dove occorre ricominciare dalle fondamenta. E cosa c’è di più fondamentale che educare i giovani.  Allora si mette a fare scuola ai giovani per poter accrescere la cultura dei suoi e rendere  comunicabile a loro il cristianesimo.

Pensate: è proprio di quegli stessi anni (tra il ’55 e il ’57) la stessa scelta di un altro prete, Don Luigi Giussani, che lascia l’insegnamento del seminario per andare a insegnare, fare scuola ai giovani in un liceo statale di Milano, colpito dalla totale assenza del cristianesimo come fatto interessante e provocatorio. Da quella scelta e da quel lavoro a scuola nasceva Gioventù Studentesca che continua  oggi in Comunione e Liberazione.  Mi pare di intravedere in entrambi un giudizio profetico, anticipatore, sulla crisi della società italiana e, nella diversità delle personalità e dei percorsi, una simile strada intrapresa.

E’ interessante ed estremamente attuale anche la ragione che  tiene Don Milani legato alla Chiesa, nelle vicende turbolenti del suo sacerdozio. Lo dice agli ÿamici, lo scrive a Elena Brambilla: è la confessione. “Chi altrimenti potrebbe perdonare i miei peccati?”.   Dunque tutt’altro che semplicemente “un contestatore” o un politicante, come poi molti lo dipinsero.

3.

Vediamo ora  l’attualità dell’educatore.  Dove Don Milani arriva, dunque apre una scuola popolare. Quali sono gli aspetti del  suo agire da cui imparare oggi ?  Innanzitutto l’attenzione, l’osservazione della realtà che nella vita della scuola è operante fondamentalmente, a me pare, in due modi.

Innanzitutto come  attenzione alla realtà dei ragazzi, dei quali parla con grande e rude affetto nelle sue lettere, affetto che origina conoscenza profonda e gli permette di comprenderne le situazioni concrete. Li ha presenti uno a uno e di ciascuno scrive anche a persone importanti per chiedere aiuto. Altro che politicante ! Trova il tempo per ognuno di loro, per le cose più semplici, quasi come una madre (non certo per temperamento !) che vive con loro e ben comprende tra l’altro che quei ragazzi guarderanno ai fatti e non alle parole.  Come quando chiede a Mario Gozzini di fare in modo che Alessio non sia costretto al lavoro festivo. (vedi anche Libed – p.30). Quanti episodi potremmo trovare per questo.

Poi come attenzione e apertura alla realtà globale, all’ambiente più grande che sta attorno alla scuola, perchè tale è l’unica forma dell’educare, come scrive anche Don Luigi Giussani nel suo “Rischio educativo”.  Questa realtà più grande non è oggetto di “uso” strumentale, ma di vivo interesse personale per sé e per i suoi ragazzi.  Nel piccolo locale della canonica di Barbiana, sede  della scuola che lo renderà “famoso”, tutti ricordano lo scritto in grande “I care”. Don Milani lo spiega nella sua autodifesa al processo intentatogli sul problema dell’obiezione di coscienza (vicenda che può essere compresa rettamente solo se legata al suo primario interesse educativo): “Dovevo pur insegnare come ognuno deve sentirsi responsabile di tutto.  ‘Me ne importa, mi sta a cuore’  è il contrario esatto del motto fascista (e non solo aggiungo io) ‘Me ne frego'”.

Tutto interessa a lui personalmente e tutto gli interessa per i suoi ragazzi;  tutto porta dentro la scuola come i personaggi che porta ogni venerdì alla Scuola Popolare di San Donato.  Così come porta i suoi ragazzi a misurarsi con il mondo fuori della scuola:  altro che insegnamento chiuso nella mia aula, nella mia materia, nelle mie ore, nei miei programmi, nei miei libri di testo, che di fatto dominava gran parte della scuola italiana di allora (e non solo !).  Lui stesso quando può è con i suoi ragazzi, come nella settimana in Germania del 1961 e non certo perché il “bilancio della scuola glielo garantiva” !  Anzi,  aiutandoli anche col denaro  ad andare a lavorare all’estero per imparare la lingua: perché la lingua straniera per Don Milani si impara sul posto, nella vita e non certo solo nel chiuso delle aule.

L’attenzione alla realtà è esercizio della ragione che indaga,  talvolta anche impietosamente, senza risparmiare la crudezza della verità anche di fronte a personaggi “importanti”.  Capitava ad esempio che qualche intellettuale invitato a parlare a San Donato si sentiva rimproverare di non essersi preparato.  Non si trattava di moralismo vessatorio, ma della serietà che viene dal giudizio dei giovani. Questa indagine ha come meta la verità.  A Mario Gozzini spiega questo metodo: “riportare ogni singolo loro problema ai suoi primi principi e anche porsi talvolta gli ultimi perchè dell’uomo e del mondo”. Don Milani sa bene che il cammino educativo parte innanzitutto da qui, dai “casi seri” della vita.  Ci sarebbe quì ben da paragonarsi con certe pretese di neutralità  (magari avanzate in nome della scienza o di un malinteso rispetto della coscienza) imperanti nella scuola italiana. In tal senso suona oggi sicuramente provocatoria  una sua frase riferita dal card. Piovanelli nel filmato visto dai ragazzi all’ITC: “Non si può fare scuola senza una fede sicura”.  Contrariamente al relativismo culturale che già allora cominciava ad affermarsi nei sostenitori di Don Milani e che oggi caratterizza l’area culturale di sinistra che ne fa una bandiera, per il sacerdote di Barbiana nella scuola si cerca la verità che “non ha parte, perchè non è mica come il monopolio delle sigarette” – scrive nelle lettere: cioè la verità ci viene donata, non è creata dall’uomo.  E’ questo amore alla  verità che fa si che a San Donato vadano a scuola giovani con tessere di partito diverse. Nella lettera già citata a Meucci  Don Milani ricorda la grande vibrazione umana nella lettura con i suoi ragazzi dell'”Apologia di Socrate” il cui tema centrale è la proprio la passione per la verità come unica fonte della dignità della vita.

Quì siamo agli antipodi del soggettivismo o, più ancora del costruttivismo moderni, i quali  nega il dato del vero ed il grande bisogno  dell’uomo di misurarsi col senso ultimo delle cose. E’ proprio la trascuratezza, nella scuola di oggi (come, a dire la verità, nella scuola che ho frequentato io) di questo bisogno, che sta all’origine del disinteresse dei ragazzi verso lo studio.

Vediamo poi un accenno al metodo educativo.  Si potrebbe dire che a San Donato e a Barbiana il metodo educativo è lo svolgersi della sua personalità, che ha come modello educativo Socrate (a cui propone di

dedicare una grande scuola popolare a Firenze nella lettera a Meucci del 2 marzo 1955).  Ecco alcuni spunti. Don Milani si propone ai suoi ragazzi non come “compagnone” alla pari, ma come guida, come un uomo che ha certe caratteristiche, che fa determinate scelte a partire dalla coscienza che ha del significato di sè e della propria vita. Si pone come figura chiara con cui l’alunno può liberamente confrontarsi: ed è proprio questo continuo confronto che permette all’alunno di crescere.

La scuola diventa allora con-vivenza educativa tra maestro e alunni, con un tempo dove c’è  posto per tutti i propri problemi, per lo studio e per il lavoro utile, per imparare a nuotare in una vasca e per le curiosità, fino alle proprie difficoltà. Dove “non c’è tempo per vacanze” perchè –  come dicono i ragazzi all’inizio di “Lettera ad una professoressa”  l’alternativa il lavoro nei campi,  ed il lavoro, loro lo sanno bene, è peggio. Nella scuola il tempo si allunga non come schema imposto dal Ministero centrale, eguale dall’Alpi alle Sicilie, ma a partire delle esigenze delle persone.  Potremmo oggi dire che solo qui si radica la possibilità di una autonomia didattica ed organizzativa per le scuole.  Perché innanzitutto la scuola è fatta di vita e la vita entra nella scuola e questa deve cercare gli spazi didattici ed organizzativi per permetterlo. Che attualità !  L’oggetto delle indagini e il punto di partenza per lo studio di varie materie sono i piccoli e grandi fatti umani.  Quanto invece materie e programmi insegnati nelle nostre scuole elementari o medie (per non dire poi soprattutto delle superiori) sono spesso piene solo di concetti astratti.

Le statistiche elaborate sulla vita di campagna, sull’economia del paese, sulla popolazione scolastica delle scuole delle provincia sono la via per imparare la matematica e oltre. La lingua italiana piegata alle cose concrete come imparare a compilare un telegramma, o unita all’attualità col giornale ed alle problematiche dell’esistenza attraverso la lettura comune dei grandi testi. La lingua straniera legata alla preparazione dei periodi di permanenza all’estero e imparata lavorando.  Le scienze che partono dagli esperimenti o dall’osservazione. Non manca l’imparare ad ascoltare una sinfonia di Beethoven o il lavoro manuale (dov’è più oggi nella scuola ?).  Ma  soprattutto sono i fatti della vita del giorno a fare della scuola luogo di riflessione critica (lo sciopero in fabbrica, la vita di casa, la montagna). Certo che per far questo occorre una personalità in grado di introdurre un giudizio realistico, originale, capace di aiutare a comprendere la realtà.   A questo primo elemento, chiamiamolo “di metodo”, si collega il ricorso sistematico al metodo dell’incontro, iniziato gia a San Donato.  E’ inutile esemplificare questo, tanto è normale nelle scuole di Don Lorenzo.  Quante persone di ogni tipo sono state da lui chiamate e sono andate a fare incontri a San Donato ed a Barbiana; sono spesso le stesse alle quali sono indirizzate le lettere prima o dopo l’incontro stesso.  Ma per i ragazzi il primo incontro fu sicuramente  quello quotidiano con l’uomo-Don Milani, con la sua passione, con l’accento particolare che porta con sè di rapporto con tutto (ricordate: “I care” tutto mi

interessa). Sicuramente i nostri ragazzi ci giudicano e ci seguono in relazione al manifestarsi della nostra passione per quello che studiamo e facciamo.  In questo modo il cuore della scuola non è lo svolgimento del programma (il mito di buona parte della  docenza) ma il rapporto con, lo svolgersi della persona, la modalità cioè con cui sono proposti i contenuti. Anche i recenti progetti ministeriali o certe pasticciate mediazioni tra pedagogia cattolica e laica, qualche volta sembrano riscoprire l’importanza primaria della relazione nell’efficacia dell’apprendimento. Ma poi si tratta di pretesa teorica che addirittura si vuole istituzionalizzare.  Don Milani ci mostra che il rapporto non è una tecnica psico-didattica, uno stratagemma da esibizionisti, bensì lo svolgersi di una personalità appassionata al vero e all’altra persona.

Per questo e solo per questo nel rapporto prevale la cura della libertà della persona, non certo affermata farisaicamente come  pretesa di  autonomia nei ragazzi. Infatti spesso si sente dire oggi: “Deve scegliere lui ! Deve imparare ad essere autonomo”, ma lo si ribadisce per togliersi l’impegno di una rapporto.  Invece il rispetto della libertà avviene anche quando si proibisce, si urla, si redarguisce, si esige, si sa dire di no. E Don Milani fa anche questo ! Il biliardino, strumento principe della pastorale giovanile di allora in Italia da lui non c’è. Il fumo è proibito. C’è una forte esigenza sulla vita di tutti, un’esigenza di totalità che affascina, che è la suprema espressione della cura della libertà delle persone, la quale consiste infatti nella capacità dei ragazzi di dare una risposta personale alla realtà.  Esattamente l’opposto dell’uso cosiddetto “antiautoritario” fatto del messaggio milaniano.  E insieme c’è una grande attenzione ai piccoli, alle difficoltà di ognuno, ai cedimenti, alla fatica. Lo dicono i suoi ragazzi  all’inizio della loro “Lettera”. E’ poi commuovente leggere in tal senso come parla di loro nelle lettere del periodo della malattia, quando i ragazzi grandi devono sostituirlo nel far  lezione ai piccoli.

Nella prospettiva precedente si capisce un altro principio di metodo educativo che mi è parso di rilevare dai testi (principio che tra l’altro è un cardine della dottrina sociale della Chiesa).  E’ l’affermazione del primato della coscienza, della persona sull’istituzione, sullo Stato. La  lettera ai cappellani militari toscani dell’23 febbraio 1965 e l’autodifesa al processo che ne seguì, ne sono intrisi. Ma l’espressione più chiara di questo principio è la famosissima lettera a Pipetta.  Mi preoccupa invece il fatto che le più recenti elaborazioni progettuali delle commissioni ministeriali (frutto di uno strano compromesso – storico ? – tra cattolici, laici e sinistra) descrivono lo studente, il genitore in funzione dell’istituzione, come già viene inteso il docente (che ne è un impiegato) e il preside. In questi “superiori” testi la coscienza è invitata a trovare la propria  identità nel rapporto con l’istituzione (sono parole della recente C.M. 47 sulla

prevenzione delle tossicodipendenze).  Questo comporta l’eliminazione del valore della libertà della persona.

Insieme agli aspetti precedenti (che io tento magari astrattamente di distinguere, mentre nella persona di Don Lorenzo sono in tutta unità) si accompagna la comprensione del valore dell’affezione nel rapporto educativo. E’ la medesima affezione che lo porta ad essere brusco ed esigente, o ricco di tenerezza e attenzione, dolce o duro. Le due cose sono assolutamente e paradossalmente non contraddittorie, poichè nascono dalla comprensione dell’autentico bisogno dei ragazzi. Scrive a Meucci: “Dicono che la gioventù  vuole divertimento. Altri dicono che vuole organizzazione. Altri ancora che vuole un ideale di parte. Nessuno più suppone che si possa invitare a regalare per solo affetto.”.  E la durezza o la severità non allontanano perchè si è duri e severi solo con coloro che si ama veramente.

E notare che l’affezione per lui non è sentimento (come purtroppo la nostra cultura dominante ritiene). Nella stessa lettera dice:  “Penso che bisogna amarli così come sono   –  quante volte ci capita di sentire o fare lamentele sui ragazzi che non sono come noi vorremmo che fossero  –   e  – prosegue – penso che tocca a me dar loro qualcosa, e –  conclude , è quello che volevo evidenziare –   dare loro un giudizio morale in quello che fanno o che desiderano fare”.  L’affezione è innanzitutto la comunicazione di un giudizio su ciò che vale e su ciò che non vale.  Siamo quì di nuovo agli antipodi della scuola neutra di oggi, nella quale infatti non riusciamo a convincere i ragazzi alla fatica dello studio.

Per terminare questo punto sull’educatore forse quì, anche in relazione al punto precedente, occorrerebbe chiarire cosa intende Don Milani quando dice che la sua scuola è “aconfessionale“.  In una lettera lo dice in un modo brutalmente provocatorio ed attualissimo.  “La scuola non può essere che aconfessionale e non può che essere fatta da un cattolico e non può che essere fatta per amore”. Cioè: non può essere fatta dallo Stato !  E’ chiaro, da qui e da tutto il suo modo di fare scuola, che si non si tratta certo di rinuncia ad una proposta di verità, di un ideale ! Ho detto prima che il suo metodo è la sua stessa persona, la sua presenza costruita sulla fede. Mi pare quindi che per  “aconfessionale” si debba intendere la consapevolezza che lo scopo della sua scuola non è innanzitutto la conversione delle persone al vero, all’ideale. Questa è il frutto della libertà dei singoli.

Perdonatemi se, al termine di questo tentativo di descrivere qualche carattere del “metodo di Barbiana”,  accenno anche ad una banale ma interessante curiosità, proprio in relazione all’attualità di questa figura.  Oggi si parla molto di dimensione europea, di scambi culturali, di “progetto lingua”. Dal 1955 Don Milani cercava ogni modo per mandare i propri ragazzi all’estero, per imparare la lingua straniera, per incontrare altri aspetti della realtà, ma soprattutto per imparare a vivere. E non s i trattava di ragazzi che venivano da famiglie istruite, con genitori che viaggiavano o altro ! Come si fa a non parlare di attualità ! Come si fa a non dedicare una scuola a lui, come spero si potrà fare anche a Don Giussani.

4.

Veniamo ora all’attualità della sua testimonianza di uomo.  Molte cose sono già emerse nella descrizione del maestro. Mi pare chiaro, dalla sua testimonianza che si è maestri di cultura e di vita se si è integralmente uomini, che per lui voleva dire essere integralmente cristiani (era la stessa cosa), e per chiunque è l’essere con verità quello che si è.  Lui lo era  in modo talmente integrale da essere in alcuni momenti e scritti intransigente, assoluto, non disposto a compromessi. Come su tutta la vicenda del giudizio sulla guerra del 1965. Non c’è qui il tempo, ma sarebbe interessante rileggere in tal senso tutta la vicenda dell’obiezione e del processo, dell’invito alla “disobbedienza” che i piccolo-uomini intellettuali del ’68 hanno ridotto a strumento distruttivo del principio di autorità. Che distorsione !!

Vorrei però solo sottolineare due aspetti dell’uomo, del cristiano che mi han colpito, anche perchè su di essi è avvenuta, dalla fine dei “favolosi” anni sessanta, un’operazione ideologica  deformante. Innanzitutto l’impegno sociale, che per lui non per un qualsivoglia teorico progetto di società o per uno schematico simulacro di “popolo” ma è impegno per le persone concrete e che si esprime soprattutto, appunto e non a caso, nel fare scuola.  Questo impegno sociale appunto scaturisce dalla sua fede appassionata, dal suo affetto ai più deboli, dal desiderio di rendere di nuovo comunicabile, comprensibile quel cristianesimo che, arrivando a San Donato, aveva scoperto ridotto a lumino fumigante.  Un esempio fra i tanti. Nella lettera a Gozzini, già citata, si scaglia contro il lavoro festivo (nella linea della più autentica dottrina sociale della Chiesa) innanzitutto perché  “irreligioso” prima che “disumano e antisociale”.

Inoltre, nella sua battaglia culturale e umana vi sono due nemici. Uno è il borghesismo inteso come cultura e mentalità negatrice del mistero, del divino e quindi dell’uomo. La definisce come “veleno mortale”, che si esprime nei miti creati con malizia dalla grande industria. A questi dedica un capitolo di “Esperienze pastorali” con temi che si potrebbero ritrovare pari pari negli “Scritti corsari” di Pasolini.  Questa mentalità non è identificabile con una classe sociale. A Pipetta dice chiaramente (che profezia ragazzi !) che anche i comunisti potranno diventare borghesi!

L’altro nemico è l’intellettuale staccato dalla realtà della gente, cattolico o comunista che sia, che non si concepisce legato e appartenente a un popolo, che non mette le sue capacità al servizio del luogo concreto dove vive. Insomma che si parla addosso, come gran parte degli intellettuali.  E’ un grande rischio che corre anche la nostra scuola italiana di oggi.  A Gianpaolo Meucci, che allora apparteneva a Firenze al famoso gruppo dei Lapiriani, dei dossettiani, rimprovera: “a che serve sprecare intelligenze belle, culture e cuori d’oro come avete voi a profusione per rivolgersi poi ad altri intellettuali?”.

Sono sempre gli intellettuali che interpretano ai loro fini  il suo “Esperienze pastorali”, che lo vogliono trasformare in “prete da salotto, da cenacolo mistico-intellettual-ascetico”, che discettano di amore agli altri e di impegno sociale, ma sui giornali , nelle riviste e sui libri, e si guardano bene dal dedicare le

loro ore, le loro energie fattivamente a qualcuno, come scrive a Elena Brambilla il 25.3.61.  Don Milani le dice che è ben contento di incontrare intellettuali ma solo in funzione di quanto può “sfruttarli – dice proprio così, pensate !  –  per questi ragazzi”. Egoismo pastorale o educativo ? O non invece chiara

consapevolezza che l’intellettuale (e l’insegnante è tale) ha senso solo in rapporto concreto, in dedizione concreta, in appartenenza concreta ad un popolo, inteso non come l’entità astratta di certi sessantottini o ex tali, ma come persone  concrete che ti chiedono tempo.

Vorrei concludere con un ricordo personale.  Quando con alcuni amici, coi quali da universitari seguivamo nel tempo libero gruppi di studenti, sono stato a Barbiana nel 1969, siamo rimasti colpiti da quell’unico locale della canonica, spoglio e privo di strumenti, dove si faceva scuola.  In quegli stessi anni e nei seguenti anni settanta, anche a molti che sventolavano parole di Don Milani come bandiere (tipiche furono il  “non bocciare”, o “la scuola dei ricchi emargina i poveri”, oppure  “aboliamo i libri di testo”, o ancora il  “tempo pieno”), sembrava che senza strutture e aule adeguate, senza attrezzature didattiche al passo coi tempi, la scuola fosse impossibile. E’ logico che senza  locali adeguati può essere più difficile fare scuola.  Ma quel locale di Barbiana ci ha fatto capire che il cuore della scuola sono i rapporti tra le persone, il rapporto con la realtà e la presenza di adulti come maestri. Più che mai la nostra scuola ne ha bisogno e da Don Milani abbiamo  da imparare, io ho ancora molto da imparare.  Don Milani sicuramente è stato ed è uomo scomodo, soprattutto perchè difficile da ricondurre a schemi unilaterali. Ma questa è una buona scomodità, perchè fa pensare, ci costringe a non dare nulla per scontato.  Per questo forse l’augurio migliore che lui ci potrebbe fare, di fronte al nostro compito di educatori, è proprio quello di non restare mai tranquilli. Un augurio che, con lo stesso spirito ed energia pur se in contesti e con interlocutori diversi, negli anni ’80 don Luigi Giussani esprimeva agli amici che con lui avevano accettato di affrontare la grande avventura educativa di Gioventù Studentesca.

(Copyright – Roberto Pellegatta)

“Non c’è nulla di più ingiusto che fare parti uguali tra i diversi”

 

 

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