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Perché le coperture a 5 stelle del reddito di cittadinanza sono evanescenti

Giuseppe Recchi, Stefano Feltri

Il Movimento Cinque Stelle ha marciato sabato scorso per il reddito di cittadinanza. Sono passati quattro anni da quando i parlamentari di Beppe Grillo hanno presentato la loro proposta di legge per questo intervento di welfare diffuso. Da allora il consenso intorno all’esigenza di uno strumento di questo tipo è cresciuto, ma la proposta dei Cinque Stelle è rimasta grezza e – per come è oggi – non attuabile. Finisce quindi per diventare il simbolo dell’eterna transizione incompiuta del M5s: ha intercettato un quarto dei consensi disponibili, ma non riuscirà mai a crescere davvero se non dimostrerà di poter essere una affidabile forza di governo.

E oggi, come nel 2013, il cuore del programma di governo dei Cinque Stelle ha un livello di vaghezza inaccettabile per una forza politica che dovrebbe aver dedicato gli ultimi quattro anni a studiare ogni dettaglio, a dettagliare ogni copertura.

Se guardiamo le coperture, che oggi il M5s stima in 20 miliardi, rimangono esattamente gli stessi dubbi che c’erano nel 2013, quando il movimento aveva ancora l’attenuante dell’inesperienza. Giusto per fare due esempi: 2,5 miliardi ottenuti “centralizzando gli acquisti, ogni oggetto acquistato dalla Pubblica amministrazione dovrà avere lo stesso prezzo da Aosta a Bari”. Come stiamo vedendo nell’inchiesta su appalti e Giglio magico renziano, accentrare gli acquisti significa anche accentrare il rischio di corruzione, ma in ogni caso questa tecnicamente non è una copertura. E’ la speranza che una riforma profonda della gestione della spesa pubblica – di cui non sappiamo assolutamente nulla – produca un risparmio da poter poi usare per finanziare il reddito di cittadinanza. Ma indicare che da qui arriveranno 2,5 miliardi non significa aver trovato 2,5 miliardi.

Idem per i 5 miliardi dalle tax expenditure, cioè detrazioni e deduzioni. E’ molto facile indicare la volontà politica di attingere a quel bacino di bonus fiscali. Ma quali si tagliano e a chi? Ai tempi del governo Berlusconi, si rivelò impossibile intervenire perfino su quelli che riguardavano le spese veterinarie. In altre parole: il M5s deve dire a quali categorie vuole aumentare le tasse.

Questa leva di politica economica è molto complessa da usare perché il beneficio (l’aumento di gettito per la fiscalità) è diffuso e relativamente limitato, mentre i costi (l’aumento delle imposte dovuto alla cancellazione del bonus) sono concentrati su piccoli gruppi che di solito protestano parecchio. Limitare le detrazioni per i redditi alti – per esempio escludere chi sta sopra i 100.000 euro da quelle per le ristrutturazioni edilizie – finirebbe per alimentare il sommerso e dunque, alla fine, ridurre il gettito. Senza la lista dettagliata degli interventi, queste presunte “coperture” sono analoghe a quelle che evoca spesso Renzi promettendo miracoli dalla lotta all’evasione fiscale.

Ammettiamo però che, con un po’ di fortuna e spregiudicatezza, un eventuale governo Cinque Stelle riesca davvero a recuperare quei 20 miliardi. Il reddito di cittadinanza funzionerebbe? Di nuovo: in linea di principio siamo tutto d’accordo che dare soldi a chi non ne ha è meglio che spendere per bonus ai meno abbienti della classe media (80 euro) o per spesa clientelare. Ma ci sono una lunga lista di perplessità.

Il reddito di cittadinanza si perde quando il beneficiario riesce ad avere un reddito “superiore alla soglia di povertà” o rifiuta più di tre proposte di lavoro. Ci sono due punti da chiarire. Primo: se l’assegno di 780 euro si perde appena si ottiene un lavoro con salario almeno equivalente, il disoccupato non avrà grande incentivo a darsi da fare. Il vincolo delle tre offerte può sembrare drastico, ma vale solo per i dipendenti. Un professionista disoccupato a partita Iva può trovare più conveniente non accettare un lavoro che prendere il contratto e poi perdere il reddito di cittadinanza (nel mondo reale: accetta il contratto, ma si fa pagare in nero). Per questo sarebbe utile prevedere una gradualità, cioè il reddito rimane ma si riduce gradualmente quando trovi lavoro, fino ad azzerarsi. Ma questo farebbe salire i costi. L’alternativa però è spingere la parte più debole della popolazione in quella che gli economisti chiamano la “trappola della povertà”, in cui ottenere il sussidio diventa il fine invece che il mezzo per approdare a un nuovo impiego.

I Cinque Stelle immaginano poi un’efficienza amministrativa da Stato scandinavo, capace di incrociare domanda e offerta di lavoro alla perfezione. Magari funzionerà, ma di sicuro non subito. E i pentastellati dovranno mettere in conto polemiche superiori a quelle di Renzi con la Buona Scuola. Perché ci sarà sicuramente chi perderà il reddito di cittadinanza se rifiuta un’offerta a 200 chilometri di distanza o un ingegnere che si indigna se costretto ad accettare un posto da addetto alle pulizie. E la lista dei punti critici potrebbe continuare.

Nessuno ha mai detto che sarebbe stato facile introdurre uno strumento di welfare adatto a un’economia post-industriale. Ma i Cinque Stelle hanno avuto quattro anni per chiarire i dubbi, per elaborare soluzioni tecniche, per prevenire critiche. Non lo hanno fatto.

Se il M5s vuole essere una forza di governo migliore di quelle che abbiamo visto all’opera in questi ultimi anni, deve iniziare a dimostrarlo adesso.

Non può chiedere di essere valutato soltanto dopo, una volta che avrà conquistato palazzo Chigi.

(Articolo pubblicato sul Fatto Quotidiano e consultabile a questo link)

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