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Vi racconto come e perché Matteo Renzi ha cambiato idea dopo il referendum

Di Alessandra Sardoni
Irresponsabilità, ALESSANDRA SARDONI

“La responsabilità è mia, ci metto la faccia, mi gioco tutto, se non passa la riforma del senato lascio la politica”, ha scandito spesso Matteo Renzi nel corso del suo mandato da presidente del Consiglio. Fino alla scommessa finale, anzi definitiva, sul referendum confermativo della riforma costituzionale del senato trasformato in test su se stesso.

Lasciare in caso di sconfitta era stato prima di quella data, il 4 dicembre 2016, un valore, un contenuto politico in sé, il corollario di una cultura del maggioritario e dell’alternanza, nonché l’adesione in qualche modo ideologica a modelli anglosassoni – vedi il primo ministro britannico David Cameron dopo la Brexit –, non solo un’ipotesi legata alla contingenza, alla valutazione di opportunità. Nel gennaio del 2017, esattamente un mese e dieci giorni dopo la sconfitta referendaria, Renzi, non più premier, ma ugualmente in carica come segretario del Partito democratico, la vede tuttavia in modo diverso.

Lasciare la politica? “Sì, mi tentava, un po’ per curiosità un po’ per arroganza. Poi ho pensato che solo il vigliacco scappa nei momenti di difficoltà. Ho ripensato alle migliaia di lettere ricevute… La nostra battaglia è appena cominciata”. Queste poche righe estratte da una lunga intervista rilasciata all’ex direttore di Repubblica Ezio Mauro, rappresentano la sconfessione più radicale dello schema politico (e culturale) che lo stesso Renzi aveva introdotto nel discorso pubblico a partire dal suo insediamento a Palazzo Chigi, ma in realtà anche prima, per esempio durante le campagne per le primarie: l’idea che a una leadership personale, carismatica e moderna corrisponda una maggiore responsabilità individuale.

E tuttavia lo scetticismo degli analisti intorno all’annunciato passo indietro aveva avvolto la lunghissima campagna elettorale del 2016 come una sornioneria trattenuta, una profezia furbesca riassumibile nei reiterati. “Figurati se lascia… ma quando mai”. Tracce di questi atteggiamenti increduli sono ben visibili, del resto, nel modo in cui Ezio Mauro pone a Renzi la domanda: “Davvero ha pensato di uscire dalla politica?”, chiede, anziché “Ma non aveva detto che lasciava la politica?”.

Nella risposta Renzi liquida come “vigliaccheria” l’idea che, in caso di sconfitta, si debba mollare tutto perché tutto si tiene, governo e segreteria del partito. Tanto più che era stato proprio lui a volere la coincidenza dei due ruoli, segretario e premier. Quella che era stata fin lì una potenziale medaglia diventa in questo modo una tentazione della sfera privata e prepolitica, da respingere: “curiosità” e “arroganza” e non altre sono le categorie citate, ovvero stati d’animo.

Svolto fino in fondo, il ragionamento potrebbe portare alla conclusione che le dimissioni sono un atto irresponsabile e sempre sbagliato, legittimando così, ex post, un’infinita teoria di dimissioni non date “per senso di responsabilità”.
“Vorrei essere l’ultimo presidente del Consiglio a chiedere la fiducia in quest’aula”, aveva detto Renzi nel febbraio del 2014, domandando il voto di quel senato che prometteva di abolire. Le dimissioni dalla presidenza del Consiglio sono pertanto, oggettivamente, il gesto minimo alla luce della bruciante sconfitta del sì alla sua riforma, 60 per cento a 40.

La decisione di restare segretario del Pd (salvo rassegnare dopo due mesi dimissioni tecniche per aprire un congresso nel quale restare in campo) e di lasciare che al governo, con il successore Paolo Gentiloni, rimangano i fedelissimi Luca Lotti e Maria Elena Boschi, madrina della riforma bocciata, riporta decisamente la leadership di Renzi nell’alveo della tradizione italiana: prendere tempo, separare un’azione dalle sue conseguenze, allontanare il momento della risposta, non a caso, etimologicamente parte della parola, “responsabilità”.

Renzi è il leader che, fin dal succitato discorso al senato, aveva promesso di “voler trovare una traduzione in italiano per la parola accountability”. Si riferiva allora a una possibile riforma della dirigenza nella pubblica amministrazione, ma quello slancio lessicale resterà lettera morta e l’accountability, più o meno il rendiconto di una cosa fatta (insieme a responsibility, con diversa accezione, l’altra parola inglese per indicare la responsabilità), sarà riposta in attesa di tempi migliori. Accompagnata dal sospiro di sollievo dell’antileaderismo diffuso specie nel Pd e desideroso di una rivincita per la dimensione collettiva e oligarchica del partito.

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