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Vi spiego tutti gli errori di Alitalia contro Ryanair, Easyjet e Norwegian

Solo chi segue poco il trasporto aereo italiano si è sorpreso per il precipitare della crisi Alitalia. I segnali c’erano tutti. Prima il tambureggiare di offerte speciali per far cassa. Quindi il tam-tam su comandanti e piloti in fuga. Poi il moltiplicarsi di associazioni e sindacati. Infine, il referendum. Per capire come l’Alitalia rinata nel 2009 priva di debiti sia giunta al capolinea nel 2014 (come CAI) e nel 2017 (come SAI), i punti di partenza sono le ragioni del dissesto, che molti fanno coincidere con personale e sindacati. In realtà, la narrazione di una compagnia fallita per i privilegi (veri o presunti) dei dipendenti, ben radicata nell’immaginario, non sta in piedi.

Lo dimostrano le cifre: dopo aver abolito il prelievo a casa dei naviganti, cottimizzato il loro contratto, trasferito a forza il personale sulle basi esterne (salvo poi riportarlo a Roma nell’ennesimo cambio di strategia) e dimezzato, il costo del lavoro di Alitalia-SAI è paragonabile a quello di Easyjet. Eppure Alitalia-SAI perde molto più di quella originale: oltre il doppio in valore assoluto, oltre il triplo in percentuale al fatturato. La causa reale va cercata nella mancanza di strategia, che in un mercato sempre meno protetto ha impedito di aumentare i ricavi. L’impossibilità di basarsi su un mercato interno garantito risale addirittura al 1992, quando il “terzo pacchetto” comunitario (regolamenti 2407, 2408 e 2409) liberalizzò il trasporto aereo, aprendo la strada alle low cost e alla concorrenza di Air One, che nel tardo 1995 debuttò sulla Milano-Roma. La rotta regina era già sotto attacco da anni da parte dell’alta velocità ferroviaria, che con l’inaugurazione della direttissima Roma-Firenze le sottraeva viaggiatori.

Queste sfide non nascevano da improvvisi accordi segreti, ma in politiche ufficiali europee e nazionali, annunciate da decenni. Perché la politica e l’Iri, allora proprietario di Alitalia, non ne abbiano comprese le conseguenze resta un mistero. La causa profonda della lenta agonia è dunque l’aver modellato sul mercato interno flotte, piani e persino l’identificazione dei propri concorrenti negli altri vettori italiani, spesso comprandoli a caro prezzo nell’illusione di acquisirne le quote di mercato. In quegli anni si lasciarono ai vettori internazionali gli scali provinciali di Orio al Serio, Pisa e Treviso, oggi roccaforti low cost, senza ribilanciare Alitalia su nuove rotte a lungo raggio. Tutto ciò si è tradotto nella riduzione (o nella minor crescita rispetto ai concorrenti, che in termini competitivi è lo stesso) dei posti-chilometro offerti e venduti, aggravato dalla pressione sui prezzi innescata dalle low cost. Eppure è proprio sul mercato interno – e ancor più sull’obsoleta Milano-Roma – che nel 2009 ha puntato Alitalia-Cai. Persino l’ultimo piano targato Etihad limita la crescita dell’offerta intercontinentale a un solo aereo l’anno.

Di tale errore fondamentale non si trova quasi traccia nelle analisi dei giornali. Eppure da esso discende l’errato sviluppo della flotta, dal ritardo nell’adottare i bireattori sul lungo raggio, dal rivoluzionario Boeing 767 agli attuali 787 e Airbus A350, ormai in linea ovunque. Provocatoriamente, si può chiedere come sarebbe oggi Alitalia se anziché spendere miliardi (pare 7) per salvarla, l’azionista pubblico li avesse destinati alla flotta di lungo raggio, un po’ come per l’alta velocità (32 miliardi fino al 2006). Oggi, Alitalia dovrebbe trovare il modo di crescere, sia in termini di trasportato sia di provento medio (yield). La soluzione più adatta non sembra quella di ridurre gli aeroporti aperti al traffico di linea, da sempre cara ad Alitalia e oggi migrata al programma trasporti M5S. Un’ipotesi che – per l’assenza di collegamenti terrestri rapidi da e per i pochi aeroporti che si vorrebbero salvare – finirebbe per danneggiare molte località italiane

Di certo, servirà capacità di dialogo: il referendum ha messo a nudo la distruzione del rapporto con il personale, che dopo anni di bastone considera la carota un miraggio. Bisognerebbe soprattutto lavorare sulle strategie commerciali, offrendo i collegamenti che il mercato chiede davvero, conquistando i viaggiatori d’affari (quelli disposti a pagare di più) anche con servizi paragonabili alla concorrenza. Tutto questo in un contesto reso più difficile dal debutto del low cost anche sul lungo raggio. A Fiumicino opera da due anni Norwegian, che già offre un volo senza scalo per Seattle. I grandi gruppi come IAG (British, Iberia e Vueling) e Air France rispondono lanciando marchi low cost Level e Boost. Se anche domani arrivassero dieci nuovissimi aerei a lungo raggio, insomma, potrebbe essere troppo tardi. Per ripartire servirebbe esperienza in settori molto competitivi. Non a caso, il direttore commerciale di Ryanair, Kenny Jacobs, viene dalla grande distribuzione: un profilo molto diverso da quello istituzionale dei commissari individuati dal governo. Ma è altrettanto chiaro che ben difficilmente in sei mesi si potrà fare quanto non si è fatto nei 25 anni precedenti o convincere qualcuno ad accollarsi i debiti accumulati dalle gestioni precedenti. E se la nazionalizzazione restasse esclusa, il finale sarebbe già scritto.

(Articolo pubblicato sul numero di maggio della rivista Airpress)

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