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Perché la deposizione di Comey non innescherà a breve l’impeachment contro Trump

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Nella sua deposizione, l’ex direttore dell’Fbi, James Comey, ha dato del bugiardo al presidente degli Usa, rappresentandolo come elemento inaffidabile, inidoneo a ricoprire una carica tanto elevata. Si è però guardato bene dall’accusarlo di aver ostacolato il corso della giustizia, mentendo all’Fbi o ordinando ai suoi collaboratori di farlo. Si è “salvato in corner” affermando che tale giudizio dovrà essere formulato dal procuratore speciale – l’ex direttore dell’Fbi Robert Mueller – incaricato di effettuare indagini sul cosiddetto Russiagate, cioè sulla collusione fra i collaboratori di Trump ed esponenti del Cremlino, volta a influire sul risultato delle elezioni presidenziali dello scorso novembre, anche con azioni di hackeraggio sui sistemi informativi del Partito Democratico e con la diffusione, tramite Wikileaks, di compromettenti email di Hillary Clinton.

Vi è da ricordare che lo stesso Comey e l’Fbi erano stati accusati da membri del Partito Democratico di non aver saputo bloccare le interferenze russe sulle elezioni americane.

La Casa Bianca ha immediatamente negato che Trump abbia mentito. Ha avuto buon gioco nel farlo, screditando l’ex direttore dell’Fbi per avere passato ai media, prima della sua deposizione, le note sugli incontri avuti con Trump, giustificando tale sua azione con l’affermazione che non si fidava del presidente. Tale dichiarazione ha provocato sarcastiche battute da parte dei sostenitori di Trump. Essi hanno descritto Comey come un individuo rancoroso che tentava di vendicarsi per l’essere stato cacciato dal posto che occupava.

E’ del tutto improbabile che la deposizione di Comey faccia aprire un procedimento di impeachment nei confronti di Trump, almeno fino alle elezioni di mid-term che potrebbero annullare l’attuale maggioranza repubblicana anche nella Commissione Giustizia. Essa dovrebbe essere investita del caso e sottoporre le sue conclusioni al Congresso, che, in seduta plenaria, dovrà deliberare a maggioranza semplice se dar seguito al caso oppure no. Il verdetto del Congresso non è però definitivo. La decisione favorevole all’impeachment va trasmessa al Senato, che potrà approvarla con una maggioranza qualificata di due terzi. Anche in caso di tracollo elettorale dei Repubblicani è improbabile che i democratici possano conseguire al Senato tale maggioranza.

Tuttavia, a parte tali considerazioni giuridiche, vi è da notare che nei 241 anni di storia degli USA, nessun presidente è stato mai cacciato. L’impeachment di Clinton era passato al Congresso, ma era stato poi respinto dal Senato. Nixon si era dimesso prima che il Congresso approvasse la proposta d’impeachment. A parer mio, sotto tale profilo, Donald Trump può dormire sonni tranquilli. Molti giuristi americani affermano che nel formulare l’auspicio – e anche nell’impartire l’ordine – che l’Fbi lasciasse cadere le indagini sui contatti di suoi collaboratori con la Russia – in particolare del generale Michael Flynn – Trump non avrebbe commesso nessun reato.

Il problema non è giuridico, ma politico. All’interno potrebbe influire sul già basso livello di consenso del presidente. All’esterno, il Russiagate ha bloccato – o, almeno, reso più difficile – la politica del reset dei rapporti fra Washington e Mosca che si proponeva Trump, soprattutto in funzione anti-cinese. Essa comprendeva anche la riammissione della Russia al G-7 di Taormina, ma ne resta solo in vita la collaborazione che la Russia e gli Usa hanno in Siria, per l’eliminazione di quanto rimane dell’ISIS.

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