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Perché la riforma della cittadinanza è una cosa seria

Barbagallo

Quando ho visto nei tg la gazzarra scatenata in Aula a Palazzo Madama sul disegno di legge che introduce lo ius soli ho subito pensato: “Se avessi immaginato che la Camera Alta arrivasse a tal punto di teppismo organizzato, il 4 dicembre avrei votato per abolirla”. Un secondo dopo mi sono ricreduto: non è colpa dell’istituzione, ma di alcuni tra i partiti che ne fanno parte; e lì sono stati gli italiani a mandarglieli. Mi auguro che gli elettori responsabili di queste scelte infelici provino, almeno, un po’ di vergogna. Ma ne dubito.

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L’Istat non lo manda a dire. L’Italia perde popolazione. Nei prossimi 50 anni i residenti diminuirebbero di ben 7 milioni (pur in presenza di un saldo immigratorio positivo). All’interno di questo processo l’età media della popolazione passerà dagli attuali 44,7 anni ad oltre 50 anni. Le future nascite non saranno sufficienti a compensare i decessi ( – 400mila nel medio e lungo termine). Perché allora rifiutarsi con accanimento ad introdurre nuovi criteri per il riconoscimento della cittadinanza a persone nate nel nostro Paese da genitori stranieri? Certo l’introduzione dello ius soli deve essere – come si dice – temperato (legato ad esempio agli anni di presenza regolare della famiglia sul territorio italiano e alla conclusione della scuola dell’obbligo da parte del minore). In caso contrario ci sarebbe la fila a venire a partorire in Italia da ogni angolo del Pianeta (dal momento che la popolazione mondiale si divide in due categorie: coloro che sono italiani e quelli che italiani vorrebbero essere). Non ha senso poi fare di ogni erba un fascio, mettendo assieme i profughi che attraversano il Canale di Sicilia (magari aggiungendovi i terroristi islamici) e i ragazzi che sono nati qui, studiano o lavorano qui; parlano la nostra lingua, vestono come i nostri figli ed hanno le loro stesse aspettative.

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Tra nonni si è soliti parlare dei propri nipoti. Il mio ha solo 16 mesi, mentre quello di un mio amico – ci incontriamo ai giardini – ha frequentato la prima elementare. L’amico mi ha raccontato un episodio che dovrebbe farci riflettere. Il nipote, a scuola, ha fatto amicizia con il compagno di banco. A casa parla sempre di lui (si chiama Diego) e di quanto hanno combinato insieme durante le lezioni e nella pausa della ricreazione. Un giorno l’amico/nonno è andato a prenderlo all’uscita da scuola. Incuriosito dalla bella amicizia ha chiesto al nipote di indicargli “questo famoso” Diego. “E’ quello con il golf rosso, nonno”, ha risposto il bambino. Non gli ha segnalato che era quello dalla pelle nera.

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Gestire il complesso fenomeno dell’immigrazione, dell’accoglienza e dell’integrazione con un regime di sostanziale apartheid sarebbe illusorio, prima ancora che ingiusto. Ma – come dimostra la naturalezza dell’amicizia dei due bambini – resterebbe confinato in un contesto culturale più arretrato della realtà concreta, della vita di tutti i giorni. Visto il ruolo fondamentale che gli stranieri esercitano nell’economia e nel mercato del lavoro non avrebbe senso considerare gli immigrati come degli ospiti temporanei e tollerati, pronti a lasciare il Paese una volta che sia conclusa l’esperienza di lavoro per la quale sono venuti, secondo una versione italiana del modello di Gastarbeiter tedesco. Occorre porsi, con realismo e senza fughe in avanti, la questione della riforma della cittadinanza, a partire dai minori nati in territorio italiano.

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