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Ecco chi ha vinto e chi ha perso con l’affossamento della legge elettorale alla tedesca

Ormai sulla legge elettorale il detto “ogni giorno ha la sua pena” può essere aggiornato in “ogni ora ha la sua pena”. Le frotte di franchi tiratori spuntate l’8 giugno alla Camera, dove la maggioranza di governo ha sulla carta numeri ben superiori di quelli del Senato, hanno mostrato la fragilità delle presunte intese tra Pd, Forza Italia e M5s sul sistema proporzionale con sbarramento al 5 per cento che si rifà solo nominalmente al sistema tedesco. Il ritorno del testo in commissione Affari costituzionali approvato nel pomeriggio somiglia a un de profundis, anche se le sorprese possono nascondersi dietro ogni angolo, e quindi le elezioni in autunno si allontanano. “La legge elettorale è morta” ha detto il relatore, Emanuele Fiano (Pd).

Come nelle migliori tradizioni parlamentari italiane, a far saltare il banco è bastato un emendamento apparentemente marginale come la modifica dei collegi del Trentino Alto Adige, presentato dalla forzista Michela Biancofiore e sul quale non solo la maggioranza aveva espresso parere contrario, ma lo stesso aveva fatto il capogruppo di FI, Renato Brunetta, negando l’appoggio a una parlamentare del suo gruppo pur di rispettare, a suo dire, l’accordo sulla legge elettorale. Risultato: 270 voti a favore dell’emendamento e 256 contrari. Se si considera che il Pd ha 282 deputati e FI 50, è evidente che alle parole non sono seguiti i fatti e che molti parlamentari soprattutto del Pd e di Forza Italia, ma non solo, hanno votato a favore per calcolo politico. Un centinaio i franchi tiratori secondo un conto attendibile. “Traditori”, “vigliacchi”, “irresponsabili” e “ridicoli” sono le definizioni politiche attribuite dai democratici ai pentastellati e viceversa, in particolare dal capogruppo del Pd, Ettore Rosato, e da Danilo Toninelli (M5s).

Un errore tecnico ha scoperto le carte. Quando il presidente della Camera, Laura Boldrini, ha dato il via al voto segreto, per parecchi secondi il tabellone ha mostrato un voto palese con diversi deputati di M5s e FI a favore dell’emendamento. I numeri “segreti” sono stati però ancor più a favore (e quindi alla base dello scontro politico) perché molti del Pd avrebbero modificato la scelta una volta che il tabellone è stato oscurato. Le ipotesi possono essere diverse: dall’opposizione interna che fa capo ad Andrea Orlando agli stessi renziani che a quel punto potrebbero aver pensato di far saltare l’accordo convinti che si sarebbe andati comunque al voto anticipato con le attuali norme stabilite dalla Corte costituzionale. Ipotesi che restano tali, la sostanza è che è andato tutto per aria.

La rottura forse prevedibile non è dipesa tanto dal tipo di legge che si sta discutendo, quanto dall’accelerazione motivata esclusivamente dalla voglia di Matteo Renzi di andare a elezioni anticipate in autunno mentre ora la data del voto si riavvicina alla scadenza naturale di febbraio. I franchi tiratori dicono questo e forse è anche una prova di come una parte autorevole della sinistra, rappresentata da ultimo da Giorgio Napolitano, faccia presa a Montecitorio e trasmetta un chiaro messaggio a Renzi. Quindi, un conto è trovare un accordo su una legge elettorale, un altro è farlo di corsa entro l’estate.

La conferma è venuta dalle parole di Brunetta alla ripresa dei lavori dopo il caos mattutino: il capogruppo forzista ha rivolto un invito a scrivere insieme le regole, ha espresso un chiaro no a un ipotetico decreto che armonizzi i due diversi sistemi elettorali corretti dalla Consulta ed è arrivato perfino a fare autocritica, auspicando che non ci siano “forzature né accelerazioni ingiustificate”. L’autocritica non era un harakiri (cui solitamente Brunetta non è propenso) perché la traduzione è chiara: Silvio Berlusconi continua a preferire un sistema proporzionale, ma Renzi deve stare calmo. Un ulteriore segnale al Pd è arrivato da Francesco Laforgia, capogruppo di Mdp e quindi parte della maggioranza: no a forzature, no a decreti. Sembra molto difficile, inoltre, che il presidente della Repubblica possa accettare un decreto legge contro la volontà di buona parte del Parlamento per armonizzare le norme definite dalla Consulta.

A questo punto le elezioni amministrative dell’11 giugno assumono un’importanza ancora maggiore pur essendo già un test significativo. Matteo Richetti, neoportavoce del Pd, ha annunciato che le strategie saranno decise dopo quel voto, rimarcando “l’inaffidabilità patologica” del M5s. Un’ultima considerazione di carattere generale riguarda l’ipotesi, per ora inattuabile, della grande coalizione post elettorale tra Forza Italia e Pd. Nei giorni scorsi sembrava tutto scontato e perfino autorevoli quirinalisti hanno scritto che votando il 24 settembre il nuovo governo avrebbe fatto in tempo a presentare la legge di bilancio all’Ue entro il 15 ottobre: in 20 giorni convocazione del Parlamento, elezione dei presidenti di Camera e Senato, formazione del governo, fiducia e quindi una banalità come la legge di bilancio? Assolutamente impossibile. Ma in tutto ciò, Renzi ha sempre ragionato come se fosse ovvio che il nuovo presidente del Consiglio sarebbe stato lui. Eppure un’ampia coalizione comporta un presidente di mediazione: il vecchio centrosinistra aveva Romano Prodi, non Walter Veltroni o Fausto Bertinotti. Ma a questo Renzi non pensa. Gli altri sì.

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