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Cosa succederà dopo l’apertura dei negoziati per la Brexit

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Con una stretta di mano si sono aperti lunedì i negoziati Brexit. Michel Barnier, con una lunghissima esperienza nelle istituzioni europee e la chance di una candidatura con il suo PPE per succedere a Jean-Claude Juncker alla presidenza della Commissione Europea, dovrà rappresentare le istanze dell’Unione. David Davis, conservatore di spicco, già noto per il suo euroscetticismo dopo aver fatto naufragare negli anni ’90 il disegno di un nuovo trattato europeo, parlerà a nome del Regno Unito. Anche lui gioca una partita politica: se riuscirà a portare a casa i risultati prefissati, il suo nome potrebbe scavalcare quello del ministro degli Esteri Boris Johnson in un’eventuale successione a Theresa May a Downing Street. Incontratisi nella sede della Commissione, i due portavoce hanno auspicato “un inizio costruttivo” dei negoziati per il bene dei rispettivi cittadini. Dopo un briefing faccia a faccia la mattina, nel pomeriggio i team di negoziatori si sono incontrati su diversi temi per cercare soluzioni comuni.

Se il clima in cui si sono aperte le trattative sembra di relativa serenità, rimangono dubbi e incertezze sul tipo di Brexit che accorderà le due parti. Ormai è certo che i negoziatori britannici portano a Bruxelles le istanze di un Paese dove, secondo i sondaggi dell’ultimo election day, il 78% dei cittadini vuole andare fino in fondo con l’uscita dall’Ue. Theresa May sperava di ricevere con le elezioni anticipate il mandato per una hard Brexit. Ma i risultati elettorali le hanno consegnato una maggioranza risicata, appesa per un filo al partito irlandese ultraconservatore del Dup, e Jeremy Corbyn alla guida di un partito laburista più forte che mai. Perfino alcuni dei tories ormai defezionano e spingono per una soft Brexit, magari con un accordo di libero scambio in stile norvegese che lasci il Regno Unito nell’orbita del mercato comune. Se il nuovo governo May dovesse cadere, o se non riuscisse nemmeno a nascere, si rischia di non concludere il divorzio nei tempi stabiliti, e cioè entro le prossime elezioni europee del 2019, con conseguenze imprevedibili.

Alcuni punti dei negoziati saranno più spinosi di altri. Barnier spingerà per la salvaguardia dei diritti di più di 3 milioni di cittadini europei residenti nel Regno Unito (circa 600.000 sono italiani) e dei britannici nel Vecchio Continente, una richiesta verso cui la May ha mostrato fino ad oggi una rigidità che non piace a Bruxelles. Dall’altra parte del tavolo Davis alzerà i toni sul Divorce Bill, il conto che gli inglesi dovranno pagare all’Ue per poter fare le valigie. Tra gli oneri finanziari che Bruxelles chiederà di rispettare ci sono le spese nel bilancio comunitario 2014-2020, come i sussidi agricoli, i versamenti nella Bce, perfino le pensioni di tutti i funzionari britannici che lavorano nelle istituzioni europee e che ora dovranno andare a casa. Alcuni rumors parlano di un conto finale tra i 40 e i 60 miliardi di dollari (c’è chi dice addirittura 100), cifre che gli inglesi non sono disposti ad accettare.

Resta poi da risolvere il problema del confine, specialmente tra le due Irlande. Nessuno, nemmeno gli Unionisti del Dup al governo con la May, auspica un confine duro: oltre che mettere a rischio le esportazioni nordirlandesi, per gran parte dirette verso i cugini del Sud, riporterebbe infatti a galla vecchie tensioni fra le due sponde. Un altro groviglio che i capi negoziatori della Brexit dovranno cercare di districare sarà il trasferimento dell’Agenzia del farmaco (Ema, 890 dipendenti) e l’Autorità bancaria europea (Eba, 189 dipendenti) dal Regno Unito in Europa, dove diversi paesi hanno dato il via a un’asta per accaparrarsi le due istituzioni. Gli inglesi cercheranno infine di liberarsi al più presto di una fastidiosa spina del fianco, la giurisdizione della Corte di giustizia Ue, che con il Great Repal Bill cesserà di prevalere sulle leggi britanniche, anche se da Downing Street hanno assicurato che le direttive e i regolamenti incorporati nell’acquis britannico non scompariranno nel nulla.

Ma più ancora che le divergenze tra le due parti già largamente previste, c’è un altro fattore che potrebbe rallentare le negoziazioni per la Brexit. È il Parlamento europeo, per decenni lasciato a latere nei processi decisionali di Bruxelles, e che invece in questo caso peserà come un macigno nei negoziati, perché avrà un potere di veto sull’accordo finale con cui gli inglesi saluteranno l’UE.

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