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Carige, ecco avanzate e scivoloni di Vittorio Malacalza

VITTORIO MALACALZA

Fossimo a Milano verrebbe da dire: Ofelè fa el to mesté. Ma a Genova le cose vanno diversamente. E la dimostrazione è la vicenda di Carige, cioè la banca di riferimento per l’intera regione Liguria, che dopo il dominio durato più di 25 anni di Giovanni Berneschi (condannato a otto anni e due mesi di reclusione oltre alla confisca di beni per 26 milioni), dal 2015 è finita nell’orbita di Vittorio Malacalza (in foto), ovvero l’uomo più ricco e liquido del capoluogo (la sua fortuna è stimata superiore a 1 miliardo).

COSA FA MALACALZA

L’imprenditore classe 1937 originario di Bobbio (Piacenza) ma genovese da una vita, che nel corso del 2015 dapprima ha rilevato il 10,5% della banca dalla Fondazione Carige a un prezzo davvero conveniente (66,2 milioni), poi è salito fino al 17,59% investendo complessivamente 263,5 milioni. Un biennio complesso, alquanto movimentato, che ha portato in scia alla strategia dettata dal vice-presidente dell’istituto, ovvero lo stesso primo azionista, a scelte drastiche, come l’azione di responsabilità promossa dalla banca nei confronti sia dell’ex dominus, che degli ultimi vertici, ovvero l’ex presidente Cesare Castelbarco Albani e l’ex amministratore delegato Piero Montani. Oltre a muovere un’azione legale di risarcimento danni da 1,25 miliardi contro il fondo Apollo, il soggetto che ha rilevato le compagnie assicurative di Carige e che aveva già tentato di scalare l’istituto. A tutto questo si aggiunge un bilancio, quello del 2016, che ha presentato una perdita di 313,6 milioni e un portafoglio di crediti deteriorati di 7,3 miliardi lordi.

GLI EFFETTI DEL CICLONE

Insomma, un vero ciclone quello targato Malacalza che però non sta portando i frutti sperati. Anzi. La banca, da tempo sotto stretta osservazione da parte della Bce, deve stringere i tempi per definire l’ennesimo piano di rafforzamento patrimoniale e di cessione delle sofferenze, dopo i 2,6 miliardi chiesti al mercato tra il 2008 e 2015. Questa volta, la ricapitalizzazione che inizialmente avrebbe dovuto assestarsi sui 450 milioni, potrebbe ora lievitare a 6-700 milioni e stravolgere ancora una volta l’assetto azionario di Carige. Questo perché, anche se Mister Miliardo dispone di cash (come l’alleato Gabriele Volpi, patrimonio stimato in 2 miliardi), che però è concentrato sui business in Africa, non è detto che voglia investire la gran parte della sua cassaforte in questa operazione. Anche per una questione di concentrazione degli investimenti. Soprattutto alla luce del fatto che, numeri di borsa alla mano, con le azioni della banca ligure scese a 0,234 euro, la sua partecipazione vale circa 35 milioni. Nulla rispetto all’impegno iniziale, 263,5 milioni appunto. Quindi una perdita latente compresa tra l’85 e il 90%. Uno choc anche per un imprenditore solido, compatto, arcigno e convinto delle proprie scelte.

TRA AVANZATE E SCIVOLONI

In buona sostanza, quello in Carige si sta rivelando per Malacalza il primo vero scivolone di una lunga e dorata carriera. Perché finora la sua biografia racconta esclusivamente di successi industriali e finanziari, di azzeccate cessioni e di diatribe risolte incassando lauti assegni. L’ultimo dei quali, da 237,5 milioni, ottenuto con l’adesione all’Opa promossa nel 2015 su Pirelli. Società, oggi controllata dalla cinese ChemChina, sulla quale lo stesso Malacalza aveva messo gli occhi nel 2010. Dapprima come semplice partner finanziario di Marco Tronchetti Provera, poi come alleato strategico e, infine, come potenziale acquirente essendo arrivato a detenere il 12,3% di Camfin e il 30,4% della holding Gpi. Probabilmente, nel 2013, l’uomo più ricco di Genova, forte di una esperienza pluridecennale nel campo dei semiconduttori, della tecnologia d’avanguardia e dell’hi-tech, avrebbe voluto entrare nella stanza dei bottoni del gruppo degli pneumatici. Prima ancora, Malacalza aveva fatto bingo cedendo nel 2008, all’alba della crisi globale dei mercati, la Trametal (siderurgia) al magnate ucraino Rinat Achmetov che pagò 1,1 miliardi. Azienda, la Trametal, che aveva costruito e portato al successo internazionale (fatturato di 500 milioni) grazie all’altro colpaccio di mercato: la cessione, nel 1995, del 50% del gruppo Duferco al socio-fondatore Bruno Bolfo con il quale entrò pure in contrasto.

LE MOSSE DI MALACALZA

Che il carattere duro, la forte convinzione nei propri mezzi, e la volontà di comandare in prima persona siano tratti distintivi di Malacalza ormai è assodato. E se ne devono essere accorti anche in banca. Due anni fa l’industriale entrò quasi in punta di piedi, dando assoluta e piena fiducia ai vertici di allora, ossia Montani e Castelbarco Albani (nel gennaio 2016 fece sapere al mercato che Carige non necessitava di nuove ricapitalizzazioni, nda), salvo poi sfiduciarli pubblicamente e farli anche oggetto di un’azione di responsabilità. Anche il nuovo amministratore delegato, Carlo Bastianini, chiamato nella primavera 2016, assieme al presidente Giuseppe Tesauro, dal primo socio della banca, è già finito nell’occhio del ciclone. Tanto che il vice-presidente dell’istituto ligure è arrivato a chiederne ufficialmente la testa (oltre a sfiduciare anche il cfo, Arturo Betunio, arrivato lo scorso dicembre da Mps).

QUANDO SARA’ IL REDDE RATIONEM

Il redde rationem è atteso per venerdì 9 giugno, giorno per il quale è stato convocato il cda decisivo sulle sorti del board ma anche di fatto della banca, che deve chiudere in fretta l’aumento se non vuole rischiare di essere costretto a fare intervenire lo Stato o i fondi speculativi. Lo scontro con Bastianini ruota sia sul rafforzamento patrimoniale, sia sulla cessione delle sofferenze (940 milioni), assistite da Gacs. Forse perché, in cuor suo, Malacalza teme di essere scalzato dal ruolo di socio di riferimento di Carige da altri soggetti finanziari, magari esteri, che approfittando della bassa capitalizzazione dell’istituto (194 milioni) potrebbero tentare il colpaccio. Senza trascurare il fatto che l’imprenditore, abituato a decidere in prima persona senza troppi fronzoli, mal sopporta la pressione della Bce.

COME STA IL CAPOLUOGO LIGURE

E forse questo suo arroccamento è anche il frutto di una serie di fatti concomitanti, che hanno portato al lento e inesorabile declino di Genova rispetto alle altre principali città italiane. Basti dire che la città, capoluogo della regione dove l’età media è la più alta d’Italia (a sua volta nazione più anziana d’Europa), che nel 1981 contava 850 mila abitanti, oggi ne ha solo 565 mila. E quel Malacalza che si avvicinò a Carige già tra il 2010 e il 2011 (pare che il figlio Davide fosse già allora contrario all’operazione), prendendo contatti con la Fondazione e rilevando una mini-quota della banca, oggi si sente più solo. Ha infatti perso tanti riferimenti, a partire dal quel Riccardo Garrone, padrone di Erg e scomparso nel 2013, che lo sostenne nel 2008 per la corsa, poi persa, alla poltrona di presidente di Confindustria. A sbarrargli la strada, o forse a voltargli le spalle, fu proprio Berneschi, all’epoca padre-padrone di Carige e di fatto di mezza Liguria, quella che finanziava allegramente. Con Berneschi c’era Flavio Repetto, presidente della Fondazione dal 2007 (poi sfiduciato a fine 2013), l’asse che guidò e di fatto portò sull’orlo del baratro l’istituto.

IL PANORAMA ECONOMICO DI GENOVA

Il fatto di essere l’uomo più ricco della città lo ha certo aiutato nella conquista della banca. Ma ora può rappresentare un problema nella misura in cui a Genova oggi l’azienda più importante è l’Ospedale San Martino. Infatti Ansaldo Energia parla cinese (anche se c’è la Cdp nel capitale), Ansaldo Sts è finita a Hitachi, l’aeroporto è crollato al 17° posto su scala nazionale e il porto non ha più quella forza economica dei tempi d’oro. A ciò si aggiunge che il Salone nautico è ai minimi termini per le guerre intestine tra i produttori di yacht, che la Fiera è stata trasformata di fatto in un centro d’accoglienza per migranti e che il progetto di recupero dell’area degli Erzelli (con la nascita del polo universitario e di un parco tecnologico) dal lancio nel Duemila ancora non decolla. Senza trascurare il fatto che due simboli della città, il Genoa e la Sampdoria un tempo in mano a imprenditori quali Aldo Spinelli e la famiglia Garrone, oggi sono controllati da Massimo Ferrero e da Enrico Preziosi, con quest’ultimo che ha messo in vendita il club rossoblù senza trovare alcun interessato.

IL CONTESTO POLITICO DELLA CITTA’

Il complesso piano di risanamento di Carige si inserisce poi in un contesto politico locale fortemente cambiato. Il Pd non ha più in Genova e nella Regione le sue roccaforti, come dimostra la vittoria del governatore Giovanni Toti (Forza Italia). Al punto che alle elezioni comunali di Genova del prossimo 11 giugno non è affatto scontato il successo del centro-sinistra ed è ritenuta possibile una vittoria dei 5Stelle. Il rischio che il movimento di Beppe Grillo, genovese doc, prenda possesso del municipio può rappresentare uno spauracchio anche per l’istituto di credito. Malacalza ha sempre avuto un atteggiamento bipartisan nei confronti di Pd e Fi. Ma con i grillini potrebbe essere diverso.

(Pubblicato su MF/Milano Finanza, quotidiano diretto da Pierluigi Magnaschi)

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