Skip to main content

DISPONIBILI GLI ULTIMI NUMERI DELLE NOSTRE RIVISTE.

 

ultima rivista formiche
ultima rivista airpress

Ecco come il Fiscal Compact strozza (anche) l’Italia

bruxelles, euro, francia, Italia

Le grida di giubilo, che hanno accompagnato gli ultimi dati Istat sulla ripresa italiana, vanno prese per quelle che sono. Manifestazione del clima elettorale o pre-elettorale in atto. Per il resto va usato il cervello. Dalla loro analisi disincantata ciò che emerge, con particolare evidenza, è lo stato di un’endemica debolezza, che nessun “ottimismo della volontà” è in grado di occultare. Quel tasso di crescita, pari allo 0,4 per cento sul trimestre precedente, è, infatti, solo conseguenza dell’accumulo di scorte. La parte più volatile del ciclo economico. Ricostituire le quali, dopo quattro trimestri di progressivo décalage, era indispensabile, nella speranza che, almeno in prospettiva, qualcosa potesse realmente cambiare. Se non vi fosse stato questo piccolo “rimbalzo” la crescita del primo trimestre del 2017 sarebbe stata pari allo zero.

Le imprese sperano, quindi, che la ripresa annunciata, quella vera e non solo quella sognata, possa manifestarsi in corso d’anno. Se ciò non avverrà sarà solo un’ulteriore delusione. Gli auspici, tuttavia, non sono dei migliori. E’ la stessa Istat a documentare un calo di fiducia. Secondo il suo ultimo comunicato, a maggio, il clima sarebbe peggiorato. Per i consumatori l’indice sarebbe diminuito da 107,4 a 105,4. E per le imprese da 106,8 a 106,2. Dati che fanno il paio con le statistiche sulla produzione industriale e sugli ordinativi. Nel primo trimestre abbiamo assistito ad una diminuzione della produzione industriale dello 0,3 per cento. A conferma del fatto che la crescita intervenuta sia stata conseguenza esclusiva del maggior dinamismo dei servizi e delle scorte. Va un po’ meglio il fatturato delle imprese (più 0,4 per cento, nel trimestre), grazie anche ad una leggera ripresa dell’inflazione. Ma è più complicato da decifrare l’andamento degli ordinativi – il futuro che ci attende – che presentano una variazione positiva nel trimestre (più 1,5 per cento), ma un più forte calo nel mese di marzo (meno 4,2 per cento). Diminuisce il tasso di disoccupazione (meno 0,4 per cento), ma aumentano gli “inattivi” (più 0,2 per cento). Cioè coloro che hanno abbandonato ogni speranza.

Rincorrere lo zero virgola, direbbe Matteo Renzi, non aiuta quindi a fare il punto sulla reale situazione italiana. Ed allora ampliamo l’orizzonte guardando ad una legislatura, che sta finendo, ed al relativo bilancio. Era iniziata male. Nel primo trimestre del 2013, quando Enrico Letta entrò in carica come presidente del Consiglio, il Pil faceva ancora registrare una caduta, rispetto agli inizi dell’anno precedente, del 2,9 per cento. I dieci mesi seguenti, fino alle sue successive dimissioni, erano stati di calma piatta, con una sostanziale stabilizzazione (più 0,4 per cento) del ciclo negativo. Con Renzi le cose erano leggermente cambiate: dopo sei mesi da dimenticare (Pil fermo al punto in cui l’aveva trovato), una leggera crescita. Nei mille giorni successivi lo sviluppo sarà infatti pari a poco più del 2 per cento. Dalla fine di aprile del 2013 ad oggi, la crescita complessiva è stata pari al 3 per cento: un modesto 0,75 per cento su base annua.

Che cos’è che non ha funzionato? Soprattutto la tenuta della domanda interna. I consumi delle famiglie sono stati pressoché stazionari, passando dal 59,5 per cento del Pil dell’inizio legislatura al 60,3 del primo trimestre del 2017. Ancora peggio gli investimenti, sebbene in recupero dal quarto trimestre del 2014. Ma nel primo trimestre del 2017 sono addirittura diminuiti (17,3 contro il 17,4 per cento del Pil) rispetto al marzo 2013. Ancora più contenuta la spesa delle Amministrazioni Pubbliche, specie per quanto riguarda la componente investimenti, che è diminuita, nello stesso periodo, dal 20,7 al 20 per cento. L’unico stimolo è venuto dall’estero (differenza tra esportazioni e importazioni). Più forte nei primi mesi della legislatura, con un attivo intorno al 3 per cento del Pil. Durante la successiva gestione del governo Renzi il décalage è stato continuo. Nel primo trimestre del 2017, la spinta originaria si è ridotta ad un più modesto 1,8 per cento.

Bilancio poco brillante: specie se si considerano gli eventi eccezionali che hanno accompagnato questi lunghi quattro anni. Da un lato, il quantitative easing di Mario Draghi. Vale a dire una gestione della politica monetaria che ha portato i tassi di interesse addirittura in territorio negativo, dal punto di vista reale. E l’andamento del prezzo del petrolio in costante e continua flessione. Ancora a maggio il prezzo del brent ha subito una caduta del 4,7 per cento; portandosi su un valore pari a 51,4 dollari al barile. Condizioni destinate, a quanto sembra, a finire. Già nel prossimo anno, la Bce dovrà rivedere una politica così permissiva ed il prezzo del petrolio, viste le imprevedibili turbolenze del mondo arabo (ultimo caso il Qatar), sembra essere destinato a salire.

In queste condizioni sembra quanto mai difficile poter ipotizzare un miglioramento del quadro di finanza pubblica, considerata la necessità di evitare l’aumento dell’Iva e delle accise – la manovra per il 2018 – che comporterebbe un ulteriore compressione del ritmo di crescita complessivo. Occorre pertanto che il confronto nelle sedi europee diventi più serrato. E’ tempo di dire che le regole del fiscal compact non solo non hanno risolto, ma hanno anche aggravato tutti i problemi. Quella dogmatica si è dimostrata essere, giusta la pur tardiva autocritica del Fondo monetario internazionale, un rimedio peggiore del male che voleva curare. Non resta che prenderne atto. Ed evitare che quelle regole, dopo il periodo di sperimentazione previsto dai Trattati (cinque anni dal 2012), siano definitivamente inserite nell’Ordinamento europeo. Che qualcuno, a livello di governo, se ne faccia carico.

×

Iscriviti alla newsletter