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Come evitare le trappole semantiche di politici e politologi

“Quando le parole perdono il loro significato, le persone perdono la loro libertà”. Questo celebre aforisma di Confucio racchiude alla perfezione il senso del seminario organizzato giovedì da Unitelma Sapienza e dalla Lichtenstein Academy a Villa Lubin dal titolo “Semantic Traps: Politics with Loaded Terms”. Un incontro in cui hanno detto la loro studiosi di fama internazionale del mondo della comunicazione e del linguaggio su un tema apparentemente conosciuto, e che invece può essere insidioso. Come cambia il significato delle parole nel linguaggio comune e mediatico? In quali “trappole semantiche” continuiamo ad incappare nella vita di tutti i giorni senza rendercene conto? In una società in cui il marketing e la comunicazione guidano la politica, alcune parole che noi diamo per scontate vengono utilizzate con un significato lontano anni luce dalla loro etimologia.

Karl Schwarz, uno dei massimi esperti di comunicazione al mondo, ne ha citate alcune che sentiamo di continuo nella narrazione europeista, una provocazione contro un’Ue che a forza di comunicati sui “valori” europei rischia di dimenticare quelli su cui si è costruita. “Parliamo di valori perché non siamo più in grado di distinguere tra il bene e il male. Questa parola viene usata per prendere le distanze dal populismo, da Trump, da Erdogan, per giustificare un qualsiasi intervento militare” spiega Schwarz, che aggiunge come oggi in Europa si parli di “equità” molto più che in passato, uno slittamento valoriale obbligato dalla crisi economica e il risentimento degli stati meridionali verso Bruxelles.

Kurt Leube, professore alla Stanford University, si è divertito a spiegare come alcuni termini nel linguaggio comune oggi vengano usati in tutt’altra accezione. Un esempio su tutti, la parola “liberale”: “Un classico caso di trappola semantica. Fin dai tempi dell’illuminismo più o meno ha significato libertà, stato di diritto, libero mercato, proprietà privata. Negli Stati Uniti col tempo è arrivato a significare qualcosa di non lontano da ‘socialista’”. E poi l’aggettivo “sociale”, troppe volte usato in contesti in cui ci azzecca poco. “Lo mettono davanti ad ogni parola, le trasforma in quel suono fastidioso che sa di politically correct” scherza Leube, che cita alcuni esempi: “possiamo tranquillamente trovare un centinaio di parole davanti alle quali si mette ‘sociale’, democrazia sociale, giustizia sociale, c’è perfino il ‘Reichstag sociale’, qualunque cosa voglia dire”.

Un altro leitmotiv a cui ci siamo passivamente abituati nel linguaggio politico è “l’interesse pubblico”. Tutti i politici sono chiamati ad agire nel suo nome, ma non è chiaro cosa voglia davvero dire. La storia di questo cliché politico è relativamente recente, come racconta il giurista tedesco Carlos Gebauer: “Montesquieu parlava di un Esprit Général, Pascal di una Volonté Générale, Russeau distingueva tra volontà particolare e volontà generale”. Una parola dal significato camaleontico, e che pure riempie ancora oggi il dibattito pubblico. Ma gli esperti di comunicazione e linguaggio sono per eccellenza gli studiosi del cambiamento, e sanno che difficilmente ci si può arrogare il diritto di affibbiare un’unica definizione. Così Gebauer è costretto a concludere: “La verità è che non esiste qualcosa come l’interesse pubblico, chi va in giro a dire di agire nell’interesse pubblico sta perseguendo un suo interesse. Il problema è che oggi ‘crediamo’ sempre di più e non pensiamo al significato delle parole”.

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