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Ecco come il referendum sull’autonomia in Lombardia e Veneto imbarazza il Pd

Roberto Maroni

Oramai la politica non ha più l’aura ieratica che aveva fino agli anni 80-90. A sentire anche gli assistenti parlamentari, ora devi stare attento a comunicare se hai un ruolo istituzionale, perché potrebbero “tirarti dietro qualcosa”. Di onorevole, purtroppo, pare essere rimasto solo il titolo.
Con questo, è anche evidente il cambiamento del ruolo della rappresentanza e delle istituzioni.

Siamo entrati nell’era del funzionalismo estremo e la politica stessa – almeno la buona politica – sta diventando più attenta ad amministrare che non a veicolare il consenso.

L’esempio lombardo, con le sue dinamiche più recenti, indica proprio questo: la possibilità di un’amministrazione nata con colori ed equilibri piuttosto precisi di fare rete con altre regioni per la fornitura di servizi (vediamo gli accordi con Campania, Lazio, Liguria, Friuli, Sardegna sulla gestione delle emergenze sanitarie) a prescindere dal livello romano. E, paradossalmente, la possibilità di fare sistema anche con amministratori locali di altro colore.

È quello che effettivamente sta succedendo in Lombardia: da un lato il Pd che abbraccia il referendum può essere un’arma per neutralizzare la consultazione di ottobre sull’autonomia lombarda e veneta rispetto al suo potenziale più strettamente politico.

Dall’altro è evidente che, comunque vada, si crea una prospettiva compatta per rilanciare il ruolo dell’Italia in Europa attraverso Milano e il suo territorio. Si veda la battaglia sull’Ema, che qualcuno vede come pretestuosa ma che invece porta un grande significato, anche di laboratorio politico.

Il Paese si sta, di fatto, ridisegnando. La Lombardia rappresenta sia la testa d’Italia nel Vecchio Continente, sia la possibilità di ripensare concretamente un nuovo rapporto fra amministratori ed amministrati. Se un tempo la cosiddetta “capitale morale” d’Italia, Milano, poteva essere collocata tout court su un altro pianeta, oggi può essere un esempio più facilmente mutuabile da altre città e altri territori.

E forse il segreto del successo lombardo è anche da imputare al fatto che gli amministratori regionali hanno via via accorciato le distanze.

Per questo, se negli anni ’90 la secessione del Nord appariva chiaramente come una provocazione, ora il referendum sull’autonomia lombarda e veneta può, al contrario, essere la grande occasione per riprogettare uno Stato più funzionale. E, quindi, un Paese più coeso.

Ora i tempi per parlare concretamente di federalismo sono maturi e Maroni ha buon gioco per aggregare su di sé il meglio della buona politica: attenzione al territorio, senza dimenticarsi del fatto che il territorio stesso non può prescindere dal contesto-Paese e dalla dimensione internazionale. Capacità di dialogo con l’opposizione e pragmatismo rispetto all’attuazione del programma di governo, senza abdicare ai propri principi.

Salvini ha avuto, da un lato, il merito di trasformare la Lega in un partito nazionale, capendo che il malcontento rispetto ad uno Stato che non restituisce ai propri cittadini quanto viene speso è pressoché uniforme a tutte le latitudini. Dall’altro ha una ricetta che condannerebbe l’Italia ad una chiusura sulla difensiva, una prospettiva suicida. La speranza è che a conti fatti anche il segretario della Lega, che non difetta di lungimiranza e carisma, comprenda bene qual è il modello da esaltare.

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