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Che succede all’occupazione femminile?

Per alcuni il “soffitto di vetro”, la barriera invisibile che impedisce alle donne di raggiungere posizioni di leadership, è stato infranto, per qualcun altro non è nemmeno stato scalfito, per altri ancora il problema, adesso, è rappresentato dalla metafora del “pavimento appiccicoso”: un insieme di impedimenti nascosti che non solo non permettono alle donne di raggiungere una posizione dalla quale picconare il soffitto per raggiungere incarichi apicali, ma di non muoversi affatto dallo status quo delle posizioni di staff. Posizioni che, anche quelle, è un problema raggiungere, stando ai dati sull’occupazione femminile diffusi ieri all’Università Luiss Guido Carli, al convegno “The sticky floor: dal soffitto di vetro al pavimento appiccicoso”, organizzato da The Ruling Companies Association e Luiss Business School.

La spesa pubblica per i giovani e per gli anziani è a favore di questi ultimi e le donne risultano ultime in questa ideale classifica, ha spiegato Veronica De Romanis, docente di Politica economica alla Luiss, che ha proseguito osservando che, sebbene il tasso di occupazione femminile fra 20 e 64 anni in Italia sia circa al 50% e in Europa circa al 60%, nel primo trimestre 2017 le donne inattive nel Paese siano 300mila in meno, rispetto al primo trimestre del 2016. Secondo la Banca d’Italia, se il tasso di occupazione femminile aumentasse di 12 punti il Pil procapite aumenterebbe del 1%. La promozione di una leadership al femminile, dunque, come ha spiegato Paolo Boccardelli, direttore Luiss Business School, “non risponde solo a un giusto principio di equità di genere, ma è finalizzata a migliorare le nostre organizzazioni per affrontare le sfide di oggi, è, insomma, un valore di crescita per tutta la società. Il 60% degli studenti della Business School è composto da donne, ma dopo il percorso di studi, non troviamo la stessa percentuale nei posti di vertice”. Le ragioni, secondo gli esperti intervenuti, sono prima di tutto culturali.

“Già dalle elementari i bambini classificano i lavori come maschili e femminili e le ragazze, crescendo, intraprendono corsi che non hanno riscontro nella domanda del mondo del lavoro – più studi umanistici che lauree Stem – dunque entrano in percorsi di carriera che le portano a occupare posizioni di staff, meno rilevanti e questo porta a un pay gap di genere”, ha detto Sandra Mori (nella foto) di Valore D, che ha continuato individuando le barriere da rimuovere: “La bassa autostima delle donne, che ritengono di non essere adeguate per posizioni di vertice; la conciliazione lavoro-famiglia, che viene percepito solo come un tema femminile; limiti culturali, cioè la già accennata scelta del percorso in base al genere e un’educazione a nascondere l’ambizione, a differenza deli uomini, che restano la maggioranza nella richiesta degli aumenti di stipendio”.

Dalla ricerca di Valore D e Boston Consulting Group basata su un panel di 2mila donne, illustrata da Laura Villani, partner & managing director della società di consulenza, emerge una differenza notevole nell’inclusività e nei percorsi di carriera delle donne, fra le aziende nazionali e le sedi italiane delle aziende straniere. “Il numero di donne in media quasi si dimezza all’aumentare della seniority, soprattutto nelle aziende italiane. Le ragioni, secondo le donne intervistate, sono i modelli di leadership orientati a una cultura maschile e la mancanza di strumenti di carriera flessibili che consentono un’uscita dal lavoro efficace per maternità. Il risultato? Le donne sono ancora costrette a dover scegliere fra carriera e famiglia”. Il pavimento comincia a diventare appiccicoso intorno ai 30 anni, analizza Olga Iarussi, ceo Sud Europa Triumph International Rome: “I vertici si domandano su chi investire, e spesso la scelta cade su un uomo, perchè la donna si avvicina alla prospettiva della famiglia. Poi il bambino nasce e le madri si ritrovano sole, senza il sostegno dell’azienda e della rete sociale che c’era in passato. Sono necessarie, dunque, misure più forti dei due giorni di paternità obbligatoria. I permessi di malattia per i figli, ad esempio, non devono spettare solo alle madri. Ben vengano dunque le misure coercitive e le distorsioni temporanee, come le quote rosa”.

Walter Ruffinoni, ad NTT Data, ha portato l’esempio positivo del Giappone e dei progressi avvenuti grazie al programma Womenomics lanciato nel 2013 dal primo ministro Shinzō Abe. “La presenza nei board è sotto il 3%, ai vertici è inferiore al 10%, ma il tasso occupazione è oggi al 66%”, ha spiegato. “Negli ultimi quattro anni il tasso di crescita dell’occupazione femminile è stato significativo e nel 2016 ha superato gli Stati Uniti. Inoltre”, continua, “ è stato defiscalizzato il part time e sono stati creati oltre 500mila posti negli asili per l’infanzia. Raggiunti gli obbiettivi di occupazione, ora il focus passa all’aumento delle donne ai vertici, per il quale sono stati introdotti dei kpi strutturali che le aziende private e pubbliche devono rispettare”.

NTT Data rappresenta un esempio positivo di inclusione in Italia: “Non abbiamo salary gap, il congedo per i padri in un anno è aumentato del 3%”, ha detto Ruffinoni. Inoltre dal 2016 la metà dei dipendenti sono donne, ma l’obiettivo di fare nuove assunzioni di cui il 50% al femminile non è andato a segno: su oltre 300 assunzioni in un anno, solo 120 sono state donne, per mancanza di laureate Stem. Fra le iniziative dell’azienda, in partnership con Valore D, un programma di incontri nelle scuole per avvicinare le bambine al coding. Un altro caso da seguire arriva da Cassa depositi e prestiti, dove “il coinvolgimento delle donne è una vera e propria tradizione”, spiega la Chief operating officer Simonetta Iarlori, “la presenza femminile ai vertici è consistente e crescerà ancora. I manager maschi hanno sviluppato una grande sensibilità al tema e questo va loro riconosciuto”.

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