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L’Occidente si è assuefatto alla barbarie del terrorismo?

Di Giovanna Pancheri

Sono da poco passate le quattro del pomeriggio del 18 marzo quando le agenzie iniziano a battere i lanci su un’imponente operazione di polizia al n. 79 di rue de Quattre vents, a Molenbeek là dove tutto è iniziato. La notizia piomba in un venerdì pomeriggio mentre nel quartiere europeo si stanno chiudendo i lavori del vertice di primavera dei capi di Stato e di governo dell’Unione. Nella sala stampa allestita per l’occasione nell’ingresso del palazzo del Justus Lipsius che ospita il Consiglio c’è un clima di attesa: si aspetta la conclusione dei lavori e le conferenze stampa di una riunione che ha ancora al centro la sicurezza, le questioni migratorie, l’imminente voto sulla Brexit, la zoppicante ripresa economica.

Seduta al mio solito posto guardo in alto verso il soffitto a vetri da cui passa l’inconfondibile luce grigia di Bruxelles. Il pomeriggio scorre lento, ho voglia di finire presto per andare a casa a fare le valigie, la prossima settimana è Pasqua: la città si svuoterà. Abbasso gli occhi sul computer ed ecco quella striscia rosso fuoco degli allert della Reuters, delle B dell’Ansa. I colleghi si risvegliano, molti scattano in piedi, prendono i cappotti, iniziano a chiamare gli operatori, si incollano al telefono. Con me quel giorno ho Emiliano, sono le prime volte che fa news, ma è un ragazzo sveglio.

Ci infiliamo in macchina insieme a un altro collega, perché i taxi non ci vogliono portare, e arriviamo a Molenbeek abbastanza velocemente. A differenza dei cordoni di sicurezza parigini, qui ci si può avvicinare molto al luogo del blitz. L’inesperienza dei belgi è lapalissiana persino in questo. Noi giornalisti siamo davanti alla porta. Noi e loro sul retro del palazzo in cui stanno effettuando gli arresti e le medicazioni. Nessun nastro della polizia, nessuna transenna a creare una barriera. Solo quattro agenti con un cane a presidio. Un’accessibilità che fa la gioia delle nostre redazioni, ma che è ai miei occhi ancora più incomprensibile soprattutto quando si diffonde la notizia che tra i feriti e i fermati c’è quello che fino a quel momento era considerato il ricercato più pericoloso d’Europa: Salah Abdeslam.

La spiegazione me la fornisce uno dei poliziotti di guardia di fronte alla porta: “Non vogliamo innervosire troppo il quartiere che è già molto provato”. Provato e in parte complice. Una complicità che è nel rumore acido dei vetri che vanno in frantumi sul marciapiedi a pochi centimetri dalla polizia. Un barattolo di conserva di pomodoro è il primo di una lunga serie di oggetti che saranno lanciati dalle finestre e dalla folla contro gli agenti. Noi ce li vediamo passare sopra la testa. Bottiglie di vetro e di plastica, pezzi di carta, chiodi, bulloni. Una pioggia di disapprovazione a cui si uniscono i fischi che si trasformano in applausi solo quando esce l’ambulanza che trasporta Abdeslam. Scene familiari in una certa Italia del Sud che custodisce, protegge e omaggia i boss di mafia nei piccoli centri, scene assolutamente inedite nella Bruxelles del multiculturalismo, che negli ultimi quattro mesi si è riscoperta crocevia del terrorismo internazionale. Un piccolo Paese con lo stesso numero di abitanti del Portogallo, che fino a ora non aveva neanche mai avuto una brigata canina e che prima dei fatti di novembre aveva conquistato le prime pagine mondiali solo per tristi cronache di pedofilia alla fine degli anni ’90, deve far fronte di colpo a una minaccia globale radicata e cresciuta in una manciata di vicoli attorno al canale con riti, equipaggiamento e motivazioni simili a quelli di un’avviata criminalità organizzata.

I belgi hanno scoperto improvvisamente laboratori di esplosivo nelle loro cantine, proiettili e munizioni nei loro garage, hanno visto per la prima volta nitidamente l’odio dei loro vicini di casa, e soprattutto hanno conosciuto e spesso indossato la maschera impenetrabile dell’omertà, perché, per quanto sia vero che ad acclamare Salah quel giorno a Molenbeek fosse una minoranza delle persone presenti, il silenzio del resto della folla era ugualmente inquietante. Come lo è stato quello che è calato poco dopo il 22 marzo, il giorno in cui la brigata della morte del 13 novembre ha frustato Bruxelles con il suo colpo di coda.

Ore 8:00, arrivati davanti all’area check-in dell’American Airlines e della Brussels Airlines dell’aeroporto di Zaventem, Najim Laachraoui e Ibrahim el-Bakraoui fanno detonare le pesanti valige nere che stanno trasportando su dei carrelli. L’esplosivo è il tatp, il perossido di acetone, lo stesso utilizzato dai kamikaze di Parigi.
Insieme a loro c’è un uomo che indossa un cappello. È Mohamed Abrini, ricercato dagli attentati del 13 novembre. Fuggirà prima di far esplodere una terza borsa.

Ore 9:11, Khalid el-Bakraoui, fratello minore di Ibrahim, si fa saltare in aria quando la metro arriva alla stazione di Maelbeek, nel cuore del quartiere delle istituzioni europee. “Un uomo dal carattere forte, un leader naturale”, lo definirà la rivista dell’Isis Dabiq nel numero di aprile 2016 in cui si sostiene che i due fratelli El-Bakraoui, entrambi radicalizzatisi in prigione, siano le menti logistiche degli attentati sia in Belgio che in Francia. “Sì, sto bene, ma porca puttana!”. “Sono a Schumann, qui è il caos… piangono tutti”. “Je venais de sortir du metro, j’ai entendu l’explosion, mais oui je suis bien… Le monde est fou… et toi? Tu es où?” .

Rileggo i messaggi e i Whatsapp degli amici di quella mattina ed eccolo lì… il terrore, alla fine ce l’ha fatta, è arrivato proprio sotto casa mia anche se, come sempre quando accadono questi avvenimenti, io per un caso fortuito sono in Italia. Ancora una volta valigie fatte in fretta, saluti strazianti in famiglia e via verso l’aeroporto, ma questa volta bisogna capire dove atterrare. Amsterdam è la soluzione più semplice e da lì in macchina perché i treni sono fermi.
“Finalmente!”, mi viene da pensare ancora incredula per come i belgi abbiano potuto sottovalutare la minaccia e lasciare la metro aperta dopo gli attacchi all’aeroporto. In Francia, e probabilmente nel resto del mondo, la metropolitana è la prima cosa che si chiude dopo un attentato… Su un totale di 32 vittime, sedici persone sono morte là sotto, sedici vite spezzate anche dall’impreparazione e dalla lentezza di un Paese che, nonostante gli avvenimenti dell’ultimo anno, non si è mai dotato di un piano di emergenza da far scattare automaticamente in caso di un attentato. Contraddizioni e leggerezze che nell’Europa in guerra contro il Califfato si pagano con il sangue.

Dopo una tappa nel quartiere di Schaerbeek, dove la polizia ha trovato e perquisito il covo degli attentatori grazie alla preziosa testimonianza del tassista che ha accompagnato i tre del commando dell’aeroporto, la direzione è una sola: la Place de la Bourse. La piazza cuore della movida del centro storico è diventata naturalmente la Place de la Republique di Bruxelles. Ancora una volta candele, messaggi, fiori, lacrime, commozione e tante, tantissime bandiere.

Il giallo, il rosso e il nero di quella belga sono minoritari. C’è il blu cosparso di stelle dorate del vessillo europeo che ritorna in varie occasioni, ma ci sono anche quella italiana, quella francese, tedesca, polacca, l’israeliana, altre stelle: quelle degli Stati Uniti. Le vittime sono di almeno 15 nazionalità diverse e tra le fioche luci di queste candele capisci che qui, a differenza di Parigi, il lutto non è anzitutto nazionale, ma europeo, mondiale. Un’altra distinzione rispetto agli attentati francesi è per me poi di carattere personale. Questa volta le testimonianze che raccolgo non sono solo quelle di sconosciuti che si sono trovati improvvisamente in faccia l’orrore a cui devo mettere davanti un microfono violando l’intimità del loro dolore, questa volta i racconti che mi toccano di più sono quelli che mi arrivano dagli amici di sempre, dalle persone con cui condivido pranzi, cene, confidenze, quotidianità.

Con Sara ci siamo messaggiate per tutto il giorno, ci sentiamo a tarda sera e a stento trattiene le lacrime. Il suo
ufficio è a pochi metri da Maelbeek. Li hanno chiusi dentro per ore impedendogli di uscire. Gli unici suoni che arrivavano dalla strada erano quelli delle sirene e degli elicotteri. Valerio, uno dei miei operatori, lavora, ma è sconvolto. La sua ragazza, Valentina, quella mattina stava andando in aeroporto. Doveva rientrare a Roma dove lui l’avrebbe raggiunta il giorno dopo, perché quel fine settimana era tutto pronto per il loro matrimonio. Alla fine si sono sposati, ma i due hanno deciso di scendere in Italia in macchina. Chiara e Marco li sento e poi li incrocio lavorando. Noi stiamo sempre insieme, il loro ufficio, la sede dell’Ansa, è due piani sotto al mio. Quando sono a Bruxelles, non c’è giorno in cui non passi del tempo con loro anche solo per un caffè. Sono la mia famiglia brussellese. Eppure quando ci rivediamo questa volta non ci sono parole, l’unica cosa da fare è abbracciarsi. Una stretta forte e lunga, mista di angoscia e gioia, gioia di essere vivi. Chiara per mesi non ha più messo piede nella metropolitana. Le abitudini che cambiano, la paura che bussa alla porta dei tuoi affetti più cari, il terrore che questa volta brucia sulla tua carne viva.

Il 22 marzo tutto ciò non l’ho solo visto e raccontato, ma mi ha anche marchiato. Anche per questo è stato ancora più sconsolante realizzare quanto è avvenuto appena 24 ore dopo. La sera del 23 marzo, dopo una giornata passata in giro a raccontare le evoluzioni dell’inchiesta e il lutto della città abbiamo concluso le dirette ancora una volta a Place de la Bourse. Era da poco passata la mezzanotte, avevo restituito la linea allo studio per l’ultima volta quel giorno, lasciato in camera il pezzo per la notte e poi mi sono guardata intorno e mi sono resa conto che la piazza era vuota. Sulla scalinata del palazzo della borsa c’era solo un gruppo di ubriachi che ridevano, urlavano e cantavano cori da stadio. Nessuna veglia notturna. Nessun via vai ininterrotto di gente comune che viene a omaggiare le vittime, nessuna preghiera in più, nessuna lacrima in più. Eccola la differenza più frustrante rispetto a Parigi: la solidarietà che si attenua. L’abitudine all’orrore. Mohamed Abrini, l’ultima “canaglia del canale”, amico d’infanzia degli Abdeslam, viene arrestato l’8 aprile. A differenza di Salah, chiuso ormai dal giorno dopo la sua cattura in un inespugnabile silenzio e in una fede incrollabile, Abrini parlerà con gli inquirenti, fornendo dettagli importanti sull’organizzazione e sulla dinamica degli attentati e degli esecutori.

L’epilogo di Salah e Abrini mette fine alla parabola di sangue iniziata il 13 novembre, ma già ispirata dagli attacchi di gennaio. I soldati della morte di Parigi e Bruxelles sono, infatti, diretta emanazione della cellula di Verviers, scoperta pochi giorni dopo le stragi di Charlie Hebdo e dell’Hyper Cacher dalla polizia belga, una cellula che stava preparando un attentato imminente in Belgio per dare man forte ai “fratelli” che avevano agito in Francia, una cellula già allora scelta, nutrita e coltivata da Abdelhamid Abaaoud che, scampato al blitz di Verviers, ha passato i mesi a seguire, a selezionare e a istigare tra la Siria e il Belgio i suoi nuovi adepti poi mandati a morire allo Stade de France, nei caffè attorno a Republique, al Bataclan, all’aeroporto di Zaventem e nella metro di Maelbeek.

Un commando del terrore che si temeva fosse solo il primo. Un nuovo modello di combattimento pronto a essere ripetuto da altre parti, attacchi coordinati e ravvicinati, contro luoghi della quotidianità, difficili da presidiare o anche solo da immaginare come obiettivi. Tutto questo potendo attingere a un nutrito bacino di foreign fighters, addestrati al massacro. Figli dell’Europa usati contro l’Europa. Uno scenario che ha lentamente mutato la paura in panico: come ci si può difendere da una minaccia così pervasiva e indefinita? La risposta a questa domanda di rado è la solidarietà. Per definizione si tende la mano a qualcuno quando si è in una posizione di vantaggio, ma quando nel baratro ci siamo finiti anche noi, l’istinto ci guida anzitutto a salvare la nostra di pelle. L’imperativo è trovare le forze per risalire la china, mettendo una gamba avanti all’altra senza accollarsi ulteriori pesi, persone, cause.

Un individualismo che ho visto emergere lentamente e manifestarsi nei successivi episodi che hanno insanguinato l’Europa. La profezia più funesta alla fine non si è realizzata. Lo Stato islamico si è rivelato molto più debole delle aspettative. Nessun esercito della morte pronto a colpire. Nessun attacco coordinato. Dalle tenebre spesso di una mancata integrazione, di una richiesta d’asilo negata, di uno squilibrio mentale già conclamato sono emersi, invece, i cosiddetti “lupi solitari”.

Nizza, Rouen, Berlino e poi Londra raccontano le storie tragiche di iniziative singole e anche i mezzi utilizzati: camion e auto lanciati contro la folla, coltelli, pugnali e machete sono il risultato di un’evidente difficoltà per gli estremisti di procurarsi armi più convenzionali. Merito in parte di un lavoro di intelligence e prevenzione coordinato che porta i suoi frutti, forse anche di un boicottaggio dei canali classici della criminalità organizzata nei confronti del terrorismo di matrice islamica, sicuramente di un progressivo indebolimento dell’Isis, che perde posizioni e adepti anche nelle sue roccaforti in Siria e in Iraq.

Eppure, questo non ha impedito il lento deteriorarsi della comune compassione. A ogni nuovo attacco, il cordoglio e il lutto è durato sempre meno, le voci di unità e rivalsa hanno risuonato sempre più fievoli. Messi ciclicamente di fronte all’orrore abbiamo semplicemente imparato a chiudere gli occhi più rapidamente. “Un male incerto provoca inquietudine, perché, in fondo, si spera fino all’ultimo che non sia vero; ma un male sicuro, invece, infonde per qualche tempo una squallida tranquillità” – scriveva Alberto Moravia – e una fredda indifferenza, aggiungerei io. E ciò che è peggio è che in ogni candela che non viene accesa, in ogni istinto a proteggere anzitutto il proprio
pianerottolo, in ogni sguardo sospettoso, in ogni porta che si chiude, in ogni muro che si alza c’è un avamposto conquistato dall’armata del terrore, un manifesto della fragilità della società occidentale da poter mostrare vivido a chi è indeciso se arruolarsi negli squadroni del fondamentalismo.

La paura germogliata dalle ceneri e dal sangue di Parigi, primo atto di una guerra che ci siamo ritrovati improvvisamente in casa, una guerra in cui ognuno di noi si è riscoperto potenzialmente vittima, quella paura si è rivelata un tarlo capace di erodere le giunture della nostra società, fondata negli ultimi 60 anni sui cardini dell’accoglienza, dell’inclusione, sulla scommessa di un continente unito e dunque più forte. Anche questo c’è dietro un’Europa che si sfalda, anche questo ci spinge verso il rifugio illusorio offerto dai populismi e dai nazionalismi, anche questo ci ha colpevolmente anestetizzato di fronte alle sofferenze altrui, rinvigorendo un egoismo che difficilmente potrà essere foriero di un’evoluzione, perché, come la storia insegna, l’assioma più pericoloso, da cui hanno succhiato linfa estremismi, conflitti e indicibili genocidi, si basa su due semplici parole messe in contrapposizione: “Noi-Loro”.

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