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Cosa succede davvero fra Usa, Europa e Cina. Parla il prof. Noci (Politecnico Milano)

Il tema delle misure anti-dumping in preparazione al Parlamento europeo è divenuto un tema politico da quando ha ricevuto l’endorsement del neo-presidente francese Emmanuel Macron. I provvedimenti sono volti a difendere le imprese europee soprattutto dalla concorrenza sleale cinese, un fenomeno che non ha eguali tra gli altri paesi terzi, e che ha già mietuto vittime tra le imprese italiane. Per un giudizio sul dibattito politico e una previsione degli scenari futuri, Formiche.net ha sentito Giuliano Noci, professore ordinario di marketing al Politecnico di Milano e prorettore delegato al Polo territoriale cinese.

Professor Noci, lei condivide la direzione di marcia di Macron sugli investimenti cinesi?

No, non la condivido, la reputo populista, miope. Come ho già detto altre volte, il successo elettorale di Macron non necessariamente si sta trasferendo in intelligenza politica.

In che senso?

Nel senso che una cosa sono le misure anti-dumping varate dall’Europarlamento che si dovranno trasferire in legge, e che riguardano tutti i paesi terzi e le procedure di concorrenza sleale. Un’altra cosa è invece quanto Macron sta affermando, che a tutti gli effetti si configura come una misura protezionistica, per altro in chiave asimmetrica, perché Macron è contento quando le imprese francesi comprano in Italia, ma quando Fincantieri acquista i cantieri di Sainte-Nazaire sostenendo l’occupazione si dichiara non contento. Adesso permuta lo stesso ragionamento verso i cinesi. Io credo che ci debba essere l’avvio di un negoziato strategico di ampio respiro finalizzato a definire in modo molto chiaro logiche di reciprocità e regole del gioco.

Quali sono gli effetti collaterali per l’UE della svolta protezionistica di Trump con la Cina?

Trump sta accelerando un processo che inevitabilmente si sarebbe manifestato. Come cento anni fa avvenne il passaggio di testimone fra Regno Unito e Stati Uniti, difficilmente questi avrebbero mantenuto la posizione di grande guardiano della globalizzazione. Le mosse di Trump, come chiudere il TPP, stanno contribuendo a spostare il baricentro verso Est. L’Europa deve giocare una politica dei due forni: l’Asia, la Cina, l’India, anche per fattori demografici, sono economie destinate ad avere un potenziale nettamente maggiore a quello americano.

Lei condivide l’orientamento di Strasburgo sullo status di Mes alla Cina?

Vede, in parte è un falso tema, di valenza prettamente simbolica. L’Europa ha colto nel segno il vero problema: la concorrenza sleale e le misure anti-dumping. Bisogna tralasciare alcuni aspetti simbolici rispetto ai quali sarebbe stato comunque difficile compattare tutti gli attori.

Cosa pensa delle misure proposte da Calenda e Gentiloni per porre paletti agli interventi dei colossi cinesi sulle imprese strategiche italiane?

Io non sono così convinto che la posizione di Calenda sia quella del governo. Non dimentichiamo che Calenda a gennaio è stato il primo in Europa che si è posto in aperto contrasto verso il riconoscimento dello status di Mes alla Cina. L’Italia ha una straordinaria opportunità, che non può essere giocata con la chiusura, ma con un dialogo consapevole in cui si affermano determinate condizioni di do ut des. Penso al progetto della Via della seta: per rendere disponibili per alcune operazioni i porti di Genova e Trieste, in cambio si chieda l’accesso al mercato cinese, specie sui prodotti del settore agroalimentare e chimico. La realtà non può essere mai dipinta in bianco e nero. L’Italia ha bisogno della Cina: ci deve essere parità negoziale, che però richiede chiarezza di idee e visione di lungo periodo.

Come si può ridurre questa evidente asimmetria negli investimenti?

La politica nelle regole del gioco conta molto. Ma deve essere innanzitutto europea, perché c’è un effetto di massa critica. L’Italia ha qualche altra freccia al suo arco. In primis la sua posizione logistica, al centro del Mediterraneo, che interessa i cinesi ed è una potente arma di scambio nei negoziati. Secondo poi, è un paese che si contraddistingue per una straordinaria capacità di innovazione, a cui i cinesi guardano con molto interesse.

Quali sono i problemi che un investitore italiano incontra in Cina?

Ci sono alcuni settori in cui è impossibile investire in Cina. Ci sono poi altri settori in cui è possibile operare solo in joint venture. Tutta una serie di chiusure dovrebbero essere rimosse. In Cina, al di là dell’aspetto politico, c’è un tema di dimensioni relative: l’Italia per la Cina è piccola, la Cina per l’Italia è mostruosa. Per questo bisogna negoziare anche con singole province della Cina per ottenere determinati vantaggi, come insediare piattaforme industriali a condizioni agevolate. Solo il Sichuan ha 90 milioni di abitanti: c’è un tema di focalizzazione, occorre individuare alcuni poli specifici su cui concentrare la nostra attenzione, basti pensare al tema dell’automazione industriale, su cui l’Italia potrà giocare una bella partita.

Quali sono i settori italiani più a rischio per il dumping cinese?

Intanto va specificato che se verrà trasferito in legge quanto definito dall’Europarlamento, l’obiettivo delle misure non sarà solo la Cina ma anche gli altri paesi terzi. Tra i settori che in Italia sono più esposti c’è certamente il siderurgico, ma anche il tessile, così come tutti i derivati del sistema del fashion. Un settore delicato è quello dello spazio, c’è un interesse ad una collaborazione fra Italia e Cina finora gestita molto bene dall’Agenzia aerospaziale italiana. Certo, siccome siamo molto bravi qualche impresa potrebbe essere oggetto di attenzioni particolari da parte dei cinesi.

L’Italia ha la forza per difendersi da sola?

Ripeto, è un tema di dimensioni relative, non siamo credibili. Non si tratta solo dell’Italia: quando Macron fa certe affermazioni, non solo non ha la forza per farle, ma nuoce anche al disegno complessivo, che è quello di un’Europa che deve assolutamente rimanere unita.

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