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Che fare con il Fiscal compact? Ecco come ferve il dibattito tra esperti

Fermi tutti, sul Fiscal compact serve un bel respiro profondo e qualche attimo di riflessione. Per un semplice motivo. Il patto sui conti pubblici firmato nel 2012  da 25 Stati membri finora non ha portato i benefici sperati. Anzi, oltre a trasformare l’austerity in una sorta di isteria tutta europea, ha generato duri scontri tra governi nazionali (l’Italia in primis) e Bruxelles. Per questo, prima di inserirlo nell’ordinamento giuridico europeo, come prevede l’articolo 16, occorre pensarci bene. Almeno secondo esponenti del mondo politico ed economico come Maurizio Sacconi, Giovanni Tria, Stefano Parisi e Gianfranco Polillo (qui un suo recente commento sul tema), riuniti al Senato da un convegno organizzato dall’Associazione Amici Marco Biagi.

FISCAL COMPACT BOCCIATO?

Per Polillo, ex sottosegretario all’Economia nel governo Monti, la questione è presto spiegata. Ad oggi i Paesi che hanno tentato di rispettare i paletti del Fiscal compact, soprattutto in termini di debito e rapporto deficit/Pil, non ci sono riusciti. “La fase di sperimentazione (5 anni dalla sua entrata in vigore, ndr) è stata tutt’altro che un successo. Su 19 Paesi, cito dati della Commissione europea, solo l’Irlanda è riuscita a rispettare le regole del Fiscal compact, riducendo il debito. Mentre la stragrande maggioranza dei Paesi, Germania inclusa, non è riuscita a raggiungere il traguardo. Tutto questo dimostra una cosa: l’esperimento non è riuscito”, ha chiarito Polillo. Dunque?

PERCHE’ SERVE UNA PROROGA

Polillo ha pochi dubbi quando si parla di Fiscal compact. E lo ha ribadito anche davanti ai convenuti in sala Caduti di Nassirya. “E’ semplice, bisogna prorogare la fase di sperimentazione, come tra l’altro previsto dall’articolo 13”. Il nocciolo della questione è capire se il Fiscal compact è effettivamente sostenibile da parte delle economie europee. Il rischio è continuare a inseguire obiettivi nei fatti irrealizzabili.  “Dobbiamo rendere tali regole di bilancio realistiche e verificarne la loro effettiva attuazione. Ma per scoprirlo abbiamo bisogno di altro tempo”.

MENO PALETTI, PIU’ INVESTIMENTI

Quando si parla troppo di paletti e regole si rischia di perdere di vista l’altra faccia dell’economia: gli investimenti. Per questo secondo Tria, preside della Facoltà di economia di Tor Vergata, bisogna ripartire proprio da lì, mettendo per un attimo da parte la rigida gabbia europea. “In Italia gli investimenti sono ancora inferiori al 26% rispetto al 2007, quelli pubblici sono inchiodati al 28%”. Per questo serve “un programma europeo per immediato rilancio degli investimenti pubblici e non, rovesciando di fatto la politica di bilancio perseguita in questi anni, che ha visto la spesa pubblica privilegiare la parte corrente invece di quella dedicata agli investimenti”.

TRA DEBITO E PAURA DI INVESTIRE (PER COLPA DELL’ANAC?)

Per Parisi, leader di Energie per l’Italia, c’è poi da fare un appunto. Della serie, attenzione, non basta cambiare il mix nella spesa pubblica e congelare il Fiscal compact. “Il vero problema si chiama debito, che non è stato aggredito come si sarebbe dovuto. Solo se facciamo questa operazione potremo riacquistare autorevolezza in Europa”. Basta così? Macchè. Per il fondatore di Epi, “sarebbe anche ora di smettere di raccontare balle. Qualcuno pensa che basta una legge finanziaria per sanare 20 anni di errori, destra o sinistra che sia. Per esempio, qualcuno si è mai posto il problema degli investimenti privati fermi nei ministeri. Fermi lì per la paura che finiscano nelle mani dei corrotti. Io mi vergogno di stare in un Paese dove c’è un’autorità anticorruzione che va avanti a comunicati stampa. Fosse per me andrebbe abolita al primo Consiglio dei ministri”.

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