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La politica tartaruga e la scienza pie’ veloce

politica, Matteo Renzi, 4 dicembre

Se uno scienziato ammettesse in pubblico di non conoscere Dante o Leopardi, farebbe (giustamente) una figuraccia. Se invece un letterato ammettesse di non conoscere Albert Einstein o Werner Heisenberg, verrebbe (ingiustamente) scusato. Forse anche perché la maggioranza di quel pubblico ignora completamente la teoria della relatività o il principio di indeterminazione. Del resto, molti nostri ragazzi non sanno che i tablet e gli smartphone di cui sono consumatori compulsivi derivano da applicazioni della meccanica quantistica. Nonostante ciò, abbiamo migliaia di giovani star della ricerca scientifica che lavorano nei laboratori e nelle università delle due sponde dell’Atlantico. Non in Italia, appunto, ma all’estero. Un dato che ha il sapore del miracolo.

Ricordo che nella Legge di stabilità 2015 il bonus di cinquecento euro già previsto per i docenti fu esteso ai neomaggiorenni, affinché (Matteo Renzi, allora premier, dixit) lo potessero spendere in “teatri, musei concerti e cultura”. In verità, stando a una ricerca di Skuola.net non sembra che l’idea abbia entusiasmato i diretti interessati. I più l’hanno giudicata come una paghetta di tipo elettorale. Eppure, quella misura non sarebbe stata priva di qualche positivo significato simbolico se fosse servita, almeno in parte, all’acquisto di buoni testi sulla rivoluzione scientifica che nel Novecento ha cambiato la visione del mondo e il mondo stesso. Penso, ad esempio, a libri come quello di Mario Agostinelli e Debora Rizzuto, Il mondo al tempo dei quanti. Perché il futuro non è più quello di una volta (Prefazione di Gianni Mattioli e Massimo Scalia, Postfazione di Giorgio Galli, Mimesis, 2016).

Più che nel fortunatissimo volumetto di Carlo Rovelli (Sette brevi lezioni di fisica), in questo libro le finalità divulgative non sono scisse da un ritratto della transizione in atto nel pianeta, che intende smuovere il lettore dalle sue più inveterate pigrizie mentali. “Finché la conoscenza scientifica -scrivono gli autori- sarà riservata a specialisti e l’opinione pubblica ne sarà partecipe solo tramite una volgarizzazione grossolana, l’incontro con l’irrazionale e con la complessità ricorrente dei nostri tempi continuerà a toccare solo i più colti nella forma nobile dell’arte, o solo i più impegnati nella forma esplosiva della passione, o, ancora, i succubi in quella passiva della mistificazione. Eppure una sintesi condivisibile di intuito, ragione, sentimento e ricerca del bene comune un tempo era prerogativa della….politica!”.

In altri termini, la tesi centrale del libro è che nel passaggio di secolo la conoscenza ha fatto passi da gigante, mentre la politica quelli della tartaruga. Una politica non esente da grosse responsabilità nelle fratture epocali che affligono l’umanità. Nelle carte antiche le terre sconosciute venivano indicate con hic sunt leones, qui sono i leoni. Noi siamo in un mondo pieno di leoni. Non ci sono soltanto il terrorismo islamico e la polveriera mediorientale. Ci sono anche il boom demografico, gli squilibri climatici e le pressioni migratorie, l’esplosione di nazionalismi e particolarismi etnici, la diffusione degli arsenali nucleari, una globalizzazione in cui si allargano il “digital divide” e la forbice della ricchezza tra i popoli e gli individui. Ritorna così in primo piano il tema dei diritti, vecchi e nuovi. Dei diritti umani e della natura, dei diritti del cittadino e del lavoratore. E di quelli rivendicati dalle pacifiche rivoluzioni novecentesche delle donne, degli ecologisti, della scienza e della tecnica. Sfide enormi e drammatiche, che secondo gli autori richiedono diagnosi e terapie nuove, non contraddittorie con le conquiste del pensiero scientifico più attuale.

Non è qui possibile descrivere tutte le ricette suggerite da Agostinelli e Rizzuto per un cambio di paradigma nella lotta contro la povertà e la fame, la crisi energetica e il degrado ambientale; e nella lotta, più in generale, contro un uso delle risorse naturali dissennato e subalterno ai mantra del determinismo tecnologico. Basti osservare, e non potrei fare apprezzamento più significativo, che esse danno un forte e salutare scossone alla cultura “produttivistica” dominante nelle élite occidentali. Ne sono convinto, anche se non sono tra coloro che pronosticano scenari apocalittici indotti della diffusione della della “robotica”, per usare un’espressione riassuntiva. Il vero nodo non è quanti lavori scompariranno e quanti ne verranno creati (interrogativo che si è proposto ad ogni rivoluzione industriale), ma quanta diseguaglianza sarà prodotta dalle applicazioni dell’intelligenza artificiale. Il “postfordismo degli automi”, per così dire, tende infatti ineluttabilmente a promuovere chi ha competenze più elevate, lasciando indietro chi ha professionalità modeste. Il rischio di una spaccatura sociale  tra chi “sa” e chi “non sa” (o sa meno) quindi c’è, e sarebbe un errore madornale sottovalutarlo.

Tra i numerosi meriti del libro, non si può sottacere il lucido esame di come il “trading algoritmico” (in cui la velocità è tutto) stia influenzando il rapporto tra economia di mercato e sistemi parlamentari. Esso è tornato ad essere problematico grazie ad un massiccio spostamento del potere di decisione verso le oligarchie finanziarie e le grandi multinazionali informatiche. D’altronde, già all’inizio dello scorso decennio Colin Crouch parlava di “postdemocrazia”. È pertanto fondata l’invocazione di una democrazia realmente deliberativa e pluralistica. Anche se, a mio avviso, essa non necessariamente postula il ripristino del metodo proporzionale (verso cui il nostro Paese si sta avviando). Spesso si dimentica che una delle sue varianti più “pure”, ossia quella in vigore da noi durante la Prima Repubblica, consentiva l’equivalenza più o meno esatta fra voti ed eletti intorno al trenta per cento del consenso: chi lo superava veniva premiato, chi invece stava sotto veniva penalizzato (talvolta anche severamente).

Infine una domanda: con quali forme organizzative va implementata la democrazia diretta per restituire cittadini lo “scettro del comando”?Agostinelli e Rizzuto non fanno menzione del fenomeno pentastellato, ma oggi l’unica esperienza in campo è quella nata da una idea mitologica della Rete, che dovrebbe permettere al signor Rossi di partecipare direttamente alla formazione della decisione politica attraverso referendum, stesura e approvazione dei programmi, dove “ognuno vale uno”. Solo che, come ormai è sempre più evidente, si tratta proprio dell’aspetto più debole dell’universo ideologico-culturale costruito da Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio.

Per ragioni di spazio, non posso soffermarmi sulla tesi, che voglio considerare come una specie di provocazione intellettuale, avanzata da Giorgio Galli nella postfazione (che è, in realtà, un denso saggio storico sul capitalismo nell’era post-newtoniana): quella di estendere il suffragio universale alla scelta dei Ceo, o di una parte dei consigli di amministrazione, delle grandi multinazionali dove vengono prese le decisioni più rilevanti per le sorti della Terra. Mi riprometto di farlo in un’altra occasione. Non posso non concludere, però, con una nota di soddisfazione e insieme di speranza, perché Il mondo al tempo dei quanti  dimostra che a sinistra (area a cui appartengono i due autori) c’è ancora chi è capace di pensare, e di pensare in grande. Coi chiari di luna che corrono nel teatrino della politica domestica, si tratta di una merce assai rara.

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