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Perché la Cia di Pompeo è in una zona pericolosa con Trump. Parola di Ignatius

La scorsa settimana il capo della Cia Mike Pompeo, parlando all’Aspen Security Forum, ha detto di essere felice di lavorare con la Russia su questioni di anti-terrorismo, ma ha aggiunto che “è chiaro che loro (i russi, ndr) trovano ogni modo possibile per renderci la vita più difficile”. Era una risposta a una domanda piuttosto diretta: ma la Russia è un alleato o un nemico? “È complicato”, ha risposto Pompeo prima di articolare il ragionamento.

Quello che dice il direttore della Central intelligence è interessante perché più o meno si allinea sulla scia dei suoi predecessori: in quegli stessi giorni John Brennan (l’ultimo cronologicamente prima di Pompeo) diceva per esempio che pensare a quello che i russi hanno fatto durante le presidenziali “gli faceva bollire il sangue nelle vene”; Michael Hayden, un altro vecchio direttore, aggiungeva che “non c’è dubbio”, l’interferenza alle elezioni americane dello scorso anno è stata “l’operazione clandestina più riuscita della storia”. Tutto è ancora più interessante se si pensa che Pompeo è stato nominato da Donald Trump, il presidente che teoricamente avrebbe dovuto/voluto aprirsi a Mosca, ma che in realtà trova ostacoli concreti a questa e altre visioni personali all’interno delle articolazioni dell’amministrazione – e nei fatti. Ma quanto è complicato per la Cia gestire queste differenze di letture, visioni, politiche?

In un articolo uscito sul Washington Post, il commentatore (star) David Ignatius dice che l’agenzia si trova in una “danger zone“, sostanzialmente perché l’amministrazione non fornisce un’adeguata copertura alle sue azioni (sebbene le voglia sempre più spinte). Uno di questi punti critici sarebbe la politicizzazione della Cia: Trump in passato ha più volte attaccato le intelligence per le indagini collegate all’interferenza russa (paragonandole ai nazisti o dicendo che raccoglievano “fake news”). Pompeo, ex congressista senza esperienza nei servizi (se non la Commissione alla Camera), vive quotidianamente alla Casa Bianca, e i suoi incontri con il presidente non sono i rituali briefing d’intelligence ma discussioni su questioni politiche di cui non dovrebbe essere lui a occuparsi. Aggiunge Ignatius: l’agenzia si trova a doversi sobbarcare l’onore di indirizzare le decisioni dell’amministrazione, che su molte dei dossier più importanti – per esempio il confronto con la Russia, ma anche i rapporti con l’Iran o la delicata situazione in Corea del Nord – non ha una posizione diplomatica e politica lineare, non ha una dottrina. Cosa più importante, aggiunge il fondista del WaPo, la Cia si trova a lavorare in un’amministrazione in “disarray“, in disordine: e cita come esempio lo scontro aperto da Trump con il dipartimento di Giustizia in questi giorni (motivo: sostanzialmente, ancora sempre quello, l’inchiesta sul Russiagate).

 (Foto: Youtube, l’intervento di Pompeo ad Aspen)

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