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Perché dobbiamo rileggere “Il tramonto dell’Occidente” di Spengler

Nel dicembre di cento anni fa Oswald Spengler licenziava la prefazione alla prima edizione del primo volume del Tramonto dell’Occidente (pp. 677, 40,00 euro) che sarebbe uscito l’anno seguente, al culmine della più squassante crisi europea dell’era moderna.

spengler

Occasione migliore, dunque, per riproporre questo classico del pensiero non poteva esserci e l’editore Nino Aragno non s’è lasciata sfuggire rimandando in libreria il testo che, controverso all’epoca, risulta oggi quanto mai attuale a fronte della decadenza delle radici e dei valori culturali e spirituali di un mondo che segnano, probabilmente al di là delle “previsioni” stesse spengleriane, le premesse del disfacimento storico euro-atlantico oltre il quale non sappiamo che cosa attenderci. È un vero peccato che la traduzione di Julius Evola alla prima edizione del Tramonto, approntata sessant’anni fa, nel 1957, quando i fumi della dissoluzione europea ancora ben visibili, sia stata sostituita (ma non è detto chi è il nuovo traduttore, forse Giuseppe Raciti che figura come curatore dell’opera?). Il filosofo tradizionalista, con un linguaggio impeccabile ed aderente allo spirito di Spengler, confermandosi il migliore esegeta italiano dello stesso insieme con Lorenzo Giusso, apriva porte che erano state tenacemente chiuse dal 1918-1922 (gli anni della pubblicazione dei due volumi) per mettere un pubblico colto, lontano e non soggiogato dagli “scongiuri” di Benedetto Croce, in contatto con l’intellettuale che aveva in animo – e ci riuscì – di elaborare una “filosofia tedesca”, figlia naturale di Goethe, Nietzsche e perfino Leibniz.

È un vero peccato che la riedizione del secondo volume sia stata differita. L’imponenza dell’opera probabilmente giustifica la scelta editoriale, ma non favorisce la comprensione di una imponente “morfologia della storia universale”, come l’autore pretese che si dovesse considerare il suo Tramonto, e forse induce a qualche travisamento, posto che nella nota introduttiva il curatore sembra volerne dare un’interpretazione originale che rimanda alla postfazione al secondo volume. Aspetteremo.

Intanto cogliamo l’occasione per plaudire alla riapparizione di un testo talmente denso quanto bello, profondo e suggestivo, irradiante luci millenarie su un orizzonte che fa parte del nostro paesaggio spirituale. È il modo migliore per celebrare un anniversario che potrebbe o dovrebbe introdurre una discussione sul valore e sull’eredità di Spengler essendo  passato pressoché sotto silenzio l’ottantesimo anniversario della sua morte, lo scorso anno, colmato in parte sempre dall’editore Aragno con la ripubblicazione de L’uomo e la tecnica, saggio apparso nel 1932, in edizione tedesca, composto sulla base di una conferenza tenuta l’anno precedente, preceduto da  una prefazione sempre di Raciti originalmente intitolata Like a rolling stone, una “spigolatura” spengleriana comunque, ripresa dallo stesso testo: “La pietra rotolante si appressa, con furiosi sbalzi, all’abisso”.

L’8 maggio del 1936, all’età di cinquantasei anni ed al culmine della sua fama, Oswald Spengler si spegneva a Monaco di Baviera, sua città di elezione dove viveva nella solitaria osservazione di un mondo che si disfaceva davanti ai propri occhi. Contemplativo e vigile componendo opere che ruotavano inevitabilmente attorno alla sua morfologia della storia la quale, a ottant’anni dalla sua scomparsa (anniversario ignorato da tutti), ancora ci appare come il compendio della decadenza europea ed occidentale. È facile dire oggi che fu una sorta di “profeta”, tanto per abbandonarlo al suo destino. Molto più verosimilmente bisognerebbe riconsiderarlo come il più lucido analista del Novecento, non soltanto dal punto di vista filosofico ma anche – e soprattutto – per la visione politica che dalla sua morfologia discendeva. Dopo più di ottant’anni non si può dire che le idee di Spengler non si siano depositate sui destini della nostra epoca rendendoli decifrabili a chi ha voluto soffermarsi sul tramonto di una civiltà che oggi nessuno più contesta anche senza conoscere chi l’aveva preconizzata è descritta.

Quando intraprese l’immane lavoro che sarebbe diventato Il tramonto dell’Occidente, Spengler aveva in animo di scrivere un romanzo storico, come i Buddenbrock di Thomas Mann. Poi, profondamente colpito dalla crisi di Agadir, si fece trascinare dalla passione verso la composizione di un saggio storico, o “romanzo storico” per alcuni,  che divenne addirittura qualcosa di più. Spengler fu ispirato dal libro di Otto Seeck, Geschichte des Untergangs der antiken Welt (Storia del tramonto del mondo antico). L’opera fu completata nel 1914 ma la pubblicazione fu rimandata per lo scoppio della Prima guerra mondiale nel corso della quale Spengler visse poveramente, perché la sua eredità, investita fuori dall’Europa, era praticamente inutilizzabile.

Il tramonto dell’Occidente è un libro universale che il tempo non ha “consumato” perché, lo si ammetta o meno, direttamente o indirettamente, è uno di quelli che ha profondamente inciso nella cultura europea. Allo stesso modo, per fare due esempi, di come incisero, sia pur dopo incomprensioni e resistenze, Il mondo come volontà e rappresentazione di Arthur Schopenhauer e lo Zarathustra di Friedrich Nietzsche.

Spengler, non meno dei due filosofi dell’Ottocento, conquistò, affascinò ed irretì la borghesia tedesca del secondo decennio del Novecento per affermarsi, con la forza di una inoppugnabile diagnosi della decadenza, nell’Europa sconvolta dagli esiti della Guerra Mondiale che diedero forza al Tramonto  che venne recepito come l’esame di coscienza di un Occidente spaventato di fronte a se stesso. Spaventato e disorientato non meno di quanto lo sia oggi, a cento anni dalla pubblicazione dell’opera.

Spengler mette davanti agli europei ciò che né da Schopenhauer, né da Nietzsche avevano accettato perché non riuscivano a toccarla: la decadenza. Mancava il motivo: la gaia apocalisse non scuoteva il vecchi europei addormentatisi con antiche certezze e risvegliatisi, dopo il conflitto, con uno sguardo atterrito sul vuoto.

Quando Il tramonto dell’Occidente apparve fu facile denigrarlo, come il prodotto della Germania sconfitta. Eppure esso venne partorito nel 1911 quando l’Impero guglielmino ancora si illudeva che il suo destino potesse essere diverso, come  quello del resto d’Europa. I segni che sinistramente si erano manifestati dalla Grande Rivoluzione in poi non erano serviti né alle oligarchie continentali, né ai borghesi e neppure alla nascente classe operaia che immaginava la sua emancipazione distruggendo il vecchio ordine. Non c’era più niente da distruggere; tutto si era già compiuto. L’Occidente barcollava sotto i colpi delle sue stesse utopie; la “guerra civile europea” non fece altro che certificare la crisi di un mondo che sopravviveva stentatamente illudendosi che, dopotutto, nulla sarebbe davvero cambiato. “In questo libro – scriveva Spengler nell’Introduzione – si azzarda per la prima volta il tentativo di predeterminare la storia. Si tratta di seguire il destino di una civilità, e segnatamente dell’unica civiltà il cui compimento sia oggi in atto su questo pianeta, la civiltà euro-americana, negli stadi non ancora intrapresi”. L’oggetto è chiaro, il fine anche, ma le conseguenze?

Ecco perché ci chiediamo se oggi il Tramonto ha ancora un senso. Se è vero che “la civiltà è una pianta”, come sostiene Spengler, è anche vero che essa continua ad agonizzare; le sue foglie sono ingiallite; non aspetta altro che morire. Nessuno sa dire quando l’evento si verificherà. E nessuno probabilmente può mettere in discussione questa “verità” preconizzata da Spengler che da morfologo della storia non si illudeva di poter suggerire ricette miracolistiche per evitarlo. Le civiltà, dopotutto, sono organismi, caratterizzate da un destino quasi biologico che deve inevitabilmente concludere il suo ciclo. Possono rifiorire, naturalmente, ma in altre forme. Dalle macerie occidentali nelle quali ci aggiriamo che cosa può nascere? E’ su questo interrogativo che si ferma la lunga meditazione spengleriana improntata ad un realismo glaciale e perciò degna di considerazione al di là di speranze ottuse nutrite tanto per allontanare lo spettro di una crisi senza sbocchi.

Le civiltà, come tutte le forme vitali, appartengono al “mondo organico” e dunque rispondono ad un principio biologico. Perciò sono dotate di un’anima che le caratterizza. Avere una storia, coltivare un destino vuol dire aderire ai dettati dell’anima. Nel periodo ascendente di una civiltà (Kultur) predominano i valori spirituali e morali che danno il senso all’esistenza degli esseri che vivono secondo i dettami del diritto naturale; l’esistenza comunitaria è organizzata in ordini, caste, gerarchie; nei cuori dei popoli domina un profondo sentimento religioso che pervade l’arte, la politica, l’economia, la letteratura. Quando la civiltà invecchia e la sua anima si rattrappisce si passa allo stadio della “civilizzazione” (Zivilisation); al principio della qualità si sostituisce quello della quantità; all’artigianato, la tecnica; l’invasività della massificazione dei gusti e dei costumi travolge le differenze; alla città suggente vita dalla campagna ed organizzata a misura d’uomo, si sostituisce la megalopoli come estrema forma di indifferentismo, un termitaio senza più una dimensione umana; le società sono livellate, l’edonismo ed il denaro sono i soli valori riconosciuti.

“Solo quando, con l’avvento della civilizzazione – scrive Spengler – comincia la bassa marea di tutto il mondo delle forme, le strutture delle mere condizioni di vita affiorano nude e prepotenti: vengono i tempi nei quali il detto volgare che ‘fame e sesso’ sono i veri momenti dell’esistenza, cessa di essere sentito come una sfrontatezza, i tempi nei quali non il divenire forti in vista di un compito, bensì la felicità dei più, il benessere e la comodità, il panem et circenses, costituiscono il senso della vita e la grande politica dà luogo alla politica economica intesa quale fine a se stessa”.

Parole che sembrano scritte in questi torbidi tempi: furono pensate oltre un secolo fa, quando Spengler voleva scrivere, intorno agli anni Dieci, come s’è detto, un grande romanzo storico e si trovò, trasportato dal sentire della decadenza, a descrivere ciò che inevitabilmente sarebbe accaduto. Il tramonto dell’Occidente ebbe un grandissimo successo: la Germania umiliata dal Trattato di Versailles (1919) e la depressione economica del 1923, alimentata dall’iperinflazione, davano ragione a Spengler. Per i tedeschi le tesi contenute nella sua opera corrispondevano al loro sentire: grazie ad esse il crollo della Germania aveva un senso, diventava comprensibile. Il tramonto ebbe un successo enorme anche fuori dai confini nazionali, tradotto in molte lingue, accese un dibattito continentale. Spengler, ormai famoso, rifiutò comunque la cattedra di filosofia offertagli dall’università di Gottinga per concentrarsi sulla scrittura e lo studio.

Il Tramonto accese opinioni contrastanti. Per Thomas Mann era come leggere Arthur Schopenhauer per la prima volta; per Max Weber Spengler era un “dilettante molto ingegnoso e colto”; Ludwig Wittgenstein ne condivideva il pessimismo culturale. In Italia, Benedetto Croce, attendo alle evoluzioni del pensiero tedesco, poco elegantemente consigliò i lettori di Spengler di “fare gli scongiuri” prima di prendere in mano la sua opera.

Nel 1928, dieci anni dopo la pubblicazione del primo volume, la rivista americana “Time” pubblicò una recensione del solo secondo volume del Il tramonto dell’Occidente. Descriveva l’immensa influenza delle idee di Spengler ed il dibattito che aveva suscitato: “Quando il primo volume de Il tramonto dell’Occidente uscì alcuni anni fa, furono vendute migliaia di copie. Il dibattito colto in Europa presto si concentrò sulle tesi di Spengler. Lo spenglerismo “contagiava” innumerevoli intellettuali”. Nel secondo volume (impossibile non riferirci anche ad esso), Spengler sosteneva che il socialismo tedesco era altra cosa rispetto al marxismo – un saggio al riguardo lo intitolò Prussianesimo e socialismo – e che era compatibile con il tradizionale conservatorismo tedesco. Nel 1924, in seguito alle agitazioni politico-sociali e all’inflazione, Spengler cercò di influenzare, senza riuscirci, il tentativo nazional-conservatore di portare al potere il generale della Reichswehr Hans von Seeckt. Nel 1931 pubblicò L’Uomo e la tecnica, che metteva in guardia contro i pericoli della tecnologia, tema su cui si sarebbe esercitato Martin Heidegger insieme con molti altri pensatori della Rivoluzione conservatrice, e dell’industrialismo onnivoro. In particolare puntava il dito contro la tendenza della tecnologia occidentale a diffondersi tra le “razze di colore” nemiche, che poi avrebbero preso le armi contro l’Occidente.

Spengler si avvicinava così agli “anni decisivi”. Ma qui si apre un altro capitolo della vicenda intellettuale del pensatore.

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