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Com’è nata l’intervista al New York Times di Trump? (E cosa c’è da capire)

Mercoledì il New York Times ha pubblicato un’intervista fatta da tre dei suoi più importanti cronisti politici al presidente americano Donald Trump. La circostanza (per quanto iperbolica) è inusuale: uno dei più importanti quotidiani al mondo, un tempio del giornalismo, non ha facile accesso alla Casa Bianca perché il presidente ha tenuto fin qui una linea piuttosto aggressiva nei confronti dei media che scrivevano cose poco compiacenti con l’amministrazione. E il Nyt, che ha una linea tendenzialmente liberal ma che al di là di questo ha affidabilità e serietà, ha spesso fatto uscire articoli scabrosi, in cui fonti interne al Trump-world raccontavano cose piuttosto scomode sui contatti con i russi da parte del comitato elettorale, per esempio, su divisioni all’interno dello staff, su delicate questioni di carattere internazionale affrontate con schizofrenia dalla presidenza.

È così che il Nyt è finito tra i target preferiti, i media “fake news”, “failing“, fallito, lo chiama il presidente nei suoi tweet contro la stampa; e giù dietro schiere di fanatici a pretendere di dare lezioni di giornalismo a Times Square. Ciò nonostante quei tre cronisti – che in passato hanno tutti firmato articoli non proprio morbidi sul presidente – sono riusciti ad ottenere un’intervista. Come mai? Scrive la responsabile del servizio esteri del Foglio, Paola Peduzzi, che i più onesti dicono “non lo so”: e forse in parte è vero. La presidenza Trump ci allena contro l’analisi collettiva e il pensiero unico perché non segue mai un’azione lineare, e questo rende allo stesso tempo affascinante e impegnativo raccontarla, di certo non scontato. E allora, forse, farsi intervistare dal nemico è conseguenza di quell’atteggiamento eccessivamente piacione con cui Trump viene dipinto da amici ed ex amici soprattutto: è uno che vuol piacere a tutti, anche ai nemici, ha su questo una fissa quasi paranoica hanno detto più volte i conoscenti ai media americani. Oppure, ancora, c’è una passaggio politico-strategico dietro: un rimpasto nel sistema comunicativo della Casa Bianca, ed è un’opzione credibile visto i cambiamenti degli ultimi giorni.

Brian Stelter, l’autore degli articoli che parlano di giornalismo sulla CNN, ha un’esclusiva su come è andata l’intervista. Trump voleva conoscere quei giornalisti, dicono le sue fonti: è stato organizzato un meet-and-greet, quegli incontri in cui le celebrità vedono la stampa per creare un clima confidenziale off-the-record. I tre giornalisti  – Michael Smith, Peter Baker e Maggie Haberman, l’unica che Trump aveva già incontrato – si sono presentati carichi di domande (tra l’altro piazzate nel modo e nel momento giusto, tanto che sono uscite cose interessantissime da quella conversazione). Quella chiacchierata introduttiva è rapidamente diventata un’intervista “news-breaking” e Trump ha accettato di starci. Scrive Stelter che è stato un negoziato continuo tra quello che Trump voleva venisse riportato e quello che invece chiedeva restasse fuori registrazione. “Trump non fa sempre quello che gli suggerisce lo staff durante queste interviste. Ma lui sa quello che fa ed è sempre sul pezzo” ha commentato Haberman. Presente all’intervista, nello Studio Ovale, solo Hope Hicks, capo della comunicazione strategica della Casa Bianca, confermata al suo posto anche dopo la nomina di Anthony Scaramucci a capo delle comunicazioni.

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