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Perché purtroppo non festeggio troppo gli ultimi dati sul Pil

Francia

A costo di essere iscritti d’ufficio nel registro dei “gufi e dei rosiconi” – ultima sobria definizione di Matteo Renzi – sugli ultimi dati Istat è bene discutere. Naturalmente siamo contenti della crescita intervenuta nel secondo trimestre. Aspettiamo solo il dato definitivo per capire quale sia stato il piccolo volano. Piccolo perché, come al solito verrebbe da dire, i principali Paesi europei hanno fatto registrare una performance migliore. Per quanto ci riguarda apparteniamo ai fan di Mister Wolf: quello che nel film di Tarantino (Pulp fiction) risolve i problemi. Ma prima di mettere le dita nel quadro elettrico, alla ricerca delle cause dell’eventuale corto circuito, togliamo la corrente per non prendere la scossa. Misura altamente consigliabile per chi rapito dall’estesi di un secondo segno “più” brinda a champagne, nel segno: “l’avevo detto”.

Che cos’è che ci rende cauti? Le statistiche di Eurostat, che mettono in fila i dati relativi a tutti i Paesi europei. Ci siamo limitati a confrontare quelli italiani con la media dei Paesi dell’Eurozona. Lo scopo era vedere se andavamo nella direzione giusta. Se la profondità della crisi, collegata al fallimento della Lehman Brothers, fosse stata in qualche modo arginata. La delusione, invece, è stata grande. L’economia italiana continua ad arrancare. Ed arrancando le distanze con il resto dell’Eurozona aumentano, invece di diminuire. La tabella prodotta da Eurostat confronta la crescita trimestrale del Pil avendo come base il 2010. Fatto 100 quel valore, la media europea, nel primo trimestre del 2017 era pari a 105,5, l’Italia a 96,4. Con una differenza di oltre 9 punti.

Nel secondo trimestre di quest’anno il trend non ha subito un’inversione di tendenza. Eurostat non ha ancora aggiornato il database, ma è l’Istat a dirci che mentre la crescita del Pil italiano è stato pari allo 0,4 per cento in termini congiunturale, in Francia l’aumento è stato dello 0,5 per cento. Ed è andata ancora peggio se il confronto è fatto su base annuale. Quando avremo anche i dati della Germania e della Spagna, sarà difficile poter tirare un respiro di sollievo.

Guardando al trend di medio periodo, la posizione italiana appare sempre più debole. Nel primo trimestre del 2013, tanto per fare un esempio, la differenza con il resto dell’Europa era di circa 5 punti. In quattro anni è quasi raddoppiata. Il dramma italiano può essere riassunto nel fatto che quando l’economia europea ha il raffreddore, l’Italia si scopre con la polmonite addosso. Quando arriva, invece, la buona stagione gli altri mettono il turbo, noi non riusciamo nemmeno ad inserire la seconda. Il risultato é una forbice che tende sempre più ad allargarsi, invece che a restringersi.

C’è quindi qualcosa di più profondo nel malessere italiano. Che i dati riportati mettono in luce. Logica vorrebbe che invece di polemizzare su piccole variazioni della temperatura del termometro, vi fosse un consulto. Il tentativo cioè di capirne le cause relative. Dovrebbe essere compito del Governo. E se questo risultasse poco disponibile, del Parlamento. E se anche quest’ultimo facesse orecchi da mercante, toccherebbe alla libera stampa. Da sempre cane da guardia contro le nefandezze della politica. Pochi segni di vita.

Mario Calabresi, il direttore di Repubblica, qualche mese fa aveva tentato di stilare l’agenda di fine legislatura: ius soli, testamento biologico e nuova antimafia. E che il Paese vada pure a rotoli, viste le priorità indicate. L’importante era il rito celebrativo delle identità ideologiche. Oggi duramente e giustamente criticato dallo stesso Luciano Violante. Ci vorrebbe, invece, una due diligence, come avviene per le aziende in crisi. La definizione di un quadro realistico con cui le forze politiche potessero misurarsi in vista dei prossimi programmi elettorali. Invece di abbaiare alla luna con proposte inconcludenti. Ciascuna delle quali – da una flat tax esagerata al salario di cittadinanza passando per proposte di investimenti miliardari destinati a rimanere sulla carta – ha pure una sua validità e le sue ragioni. Ma in un quadro di coerenza. Quello che purtroppo manca. E del quale i mercati, prima o poi, non più cloroformizzati dalle politiche del quantitative easing, ci chiederanno il conto.

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