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Un ricordo di Bruno Trentin

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Oggi ricorre il decennale della morte di Bruno Trentin. Ho avuto il privilegio di conoscerlo e l’onore di lavorare con lui per molti anni nella sua Cgil. Sua, perché adesso stento a riconoscere di chi sia. Sulla figura carismatica del leader sindacale sono stati versati fiumi di inchiostro anche recentemente, quando sono stati pubblicati i suoi Diari 1988-1994 (a cura di Iginio Ariemma, Ediesse). Il modo migliore di celebrare l’anniversario della sua scomparsa mi sembra, allora, quello di proporre ai lettori alcuni brani di un intervento pensato per un convegno della Fondazione Di Vittorio sul 1956 ungherese (12 ottobre 2006, Roma), prima che un maledetto incidente sulle sue amate Dolomiti lo costringesse al calvario di una lunga e dolorosa degenza in ospedale.

Rievocando la lezione di Giuseppe Di Vittorio, suo grande maestro, Trentin polemizza con quanti lo hanno iscritto “nella cerchia dei capipopolo e dei tribuni dall’oratoria trascinante (…) ignorando la sua statura -politica e culturale- di grande riformatore, affermatasi quando il Pci era ancora assai lontano dal percepire l’esperienza catastrofica del socialismo reale’”. Una tesi a cui egli perviene sviluppando una riflessione che, a partire dai “fatti di Budapest”, e dalla spaccatura che allora si produsse tra Cgil e Pci, approda al distacco che la politica ha progressivamente consumato nei confronti del mondo del lavoro. Sono passati undici anni, ma le sue parole sembrano scritte oggi:

Non è la prima volta che mi accade di rievocare la figura di Giuseppe Di Vittorio, e il suo ruolo in un anno -il 1956-  che rappresenta uno spartiacque nella storia del movimento operaio internazionale. Ma parlarne oggi, in modo non rituale o puramente celebrativo, per me significa riaprire una riflessione critica a tutto campo sulla vicenda del Pci e della sinistra italiana nel dopoguerra. Qui mi limito solo a segnalare questa esigenza, che pure avverto da molto tempo. Non credo di andare fuori tema, dunque, se mi chiedo fino a che punto la sinistra italiana abbia realmente metabolizzato la crisi di una vecchia cultura politica e dei suoi frutti più avvelenati, come la fatale subalternità corporativa delle lotte sociali, il primato del partito, l’impossibilità per il sindacato di esprimersi come soggetto politico.

La domanda è giustificata, se si getta uno sguardo sui tormentati avvenimenti degli ultimi quindici anni. Penso al sovraccarico di dispute astratte che hanno stressato la discussione sulla forma e sul nome del partito: del lavoro, o socialista, o riformista, o democratico. E alle difficoltà, invece, incontrate dalla costruzione di un nuovo soggetto unitario in grado di concorrere alla definizione di uno schieramento federato, in Italia e in Europa, delle forze progressiste. Penso al modo in cui è stata vissuta quella che chiamo la “fatica del progetto”, spesso vista come una specie di “onere improprio” gravante su una politica identificata -appunto-con il primato dei partiti e l’arte del governo […].

Il dissenso tra Di Vittorio e Togliatti esplose in tutta la sua crudezza con i “fatti di Budapest” del 1956, come pudicamente vengono ancora chiamati. Su quel dissenso e su quei fatti sono stati versati fiumi di inchiostro […]. Il Pci e la sinistra italiana tacquero. La Federazione sindacale mondiale (Fsm) cercò di isolare la Cgil dai sindacati parastatali dei paesi del blocco sovietico. Solo il nuovo sindacato polacco ringraziò Di Vittorio e la Cgil per aver difeso le ragioni della protesta operaia. La ferma condanna (condivisa sia da Di Vittorio che da Fernando Santi) dell’intervento armato dell’Urss nella capitale ungherese […].

L’attacco a Di Vittorio da parte della Direzione del Pci, e l’aggressione faziosa, in particolare, di Giorgio Amendola, Gian Carlo Pajetta, Paolo Bufalini e Mario Alicata. Solo Luigi Longo si distinse per la sua volontà di dialogo. E la figura di Longo va profondamente riconsiderata, contro molte caricature che ne sono state fatte. Penso alla sua analisi lucida e rispettosa dell’esperienza e dell’eredità togliattiana, che però non ne ignorava i limiti e le contraddizioni; ai primi contatti avviati (attraverso Giorgio Napolitano) con la Spd di Willy Brandt; all’apertura di un dialogo con le forze di sinistra che combattevano lo stalinismo […].  

La rottura operata dalla Cgil nel 1956, tuttavia, non fu un fulmine a ciel sereno.Essa maturò dopo un lungo processo d’incubazione, scandito da una serie di altri fatti: le lotte per il Piano del lavoro; il programma di riforme elaborate anche mediante un confronto vivo con settori importanti della cultura economica e sociale italiana; il grande e articolato movimento di massa nelle campagne; gli scioperi a rovescio per ottenere la costruzione di nuove centrali elettriche nel Sud; il rilancio dell’azione rivendicativa contro le forme più odiose di sfruttamento e di limitazione della libertà sindacale nell’industria del Nord; la battaglia per imporre una politica di riconversione dell’industria bellica. Insomma: un enorme patrimonio programmatico e rivendicativo, che rispecchiava lautonomia -anche culturale- raggiunta dalla Cgil nel corso degli anni Cinquanta […].

Ora, quali sono state le ragioni di fondo -politiche e culturali- alla base di questo rapporto conflittuale tra la Cgil e il Pci, fra un grande leader sindacale come Di Vittorio e un grande leader politico come Togliatti, protagonista della costruzione della democrazia italiana e dell’inclusione -nel suo alveo- delle classi lavoratrici? Un peso notevole, a mio avviso, lo hanno sicuramente avuto preoccupazioni di natura tattica, per cui ogni presunta “deviazione collaborazionista” della Cgil andava contrastata, in quanto rischiava di incrinare l’assunto secondo cui senza il Pci l’Italia non poteva essere governata. Ma il motivo essenziale, come già accennato, ha le sue radici in un retroterra ideologico e teorico che risale agli albori del movimento socialista. Sta in quel corpus dottrinario della Seconda  e Terza Internazionale che stabiliva una naturale -e rigida- divisione dei compiti fra sindacato e partito. Fra il sindacato, braccio del movimento sociale, e il partito, avanguardia (dei “colti”) che interpreta i veri bisogni dei lavoratori, anche quando essi non ne hanno piena coscienza (la rude razza pagana che sa soltanto chiedere più soldi e se ne infischia dell’assetto istituzionale dell’impresa, della società e dello Stato) […].

Sono questi dogmi che hanno reso i partiti sempre più delle organizzazioni autoreferenziali, e che, attraverso la cosiddetta delega salariale” al sindacato, li hanno allontanati da un’indagine viva e profonda dei mutamenti della società civile, indispensabile per ogni strategia politica. Di Vittorio ha il merito storico di avere avviato la rottura delle liturgie del leninismo, anche grazie a un’acuta percezione della complessità del processo sociale, che spingeva obiettivamente il sindacalismo confederale in una dimensione politica: le riforme di struttura, le libertà e i diritti del lavoro, l’ampliamento della rappresentanza ai disoccupati e ai sottoccupati […].

In conclusione, occorre riconsiderare la storia della Cgil di Di Vittorio dal 1945 ad oggi sotto un duplice punto di vista: quello dell’impegno per la ricostruzione, faticosa e contrastata, di un sindacalismo non corporativo, non subordinato ai partiti ma capace di dialogare con loro in ragione della sua autonomia politica e culturale; e quello dell’impegno per la piena affermazione del valore dell’unità sindacale, nella consapevolezza della portata che il processo unitario può avere per lo sviluppo della comunità nazionale e per la difesa creativa della Costituzione repubblicana. Questo vuol dire rimettere Giuseppe Di Vittorio al suo posto nella storia politica e sociale dell’Italia.

 

 

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