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Il Papa, l’accoglienza e le minacce

venezuela, Papa

Due dati di fatti segnano sempre le analisi politiche: l’incapacità di vedere chiaro il presente e la scarsa consapevolezza dei mutamenti. Questi due elementi emergono oggi davanti alla grande questione dell’immigrazione, e ai grandi mutamenti sociali, culturali e anche religiosi che essa comporta.

Il fenomeno degli spostamenti di massa è certamente antico e se ne trova traccia nel patrimonio genetico dell’Europa Antica, ma attualmente quello che sta accadendo si mostra in modo nuovo, violento e inedito nelle nostre vite quotidiane. È difficile gestire l’ordine pubblico ed è difficile vivere con serenità nelle nostre città. E, proprio perciò, questa causa sta determinando esattamente una modificazione profonda della nostra società, di cui, come si diceva, non sempre se ne percepisce la reale portata.

Una figura di primo piano in questo quadro politico è certamente Papa Francesco. Egli, fin dalle battute iniziali del suo Pontificato, ha voluto mostrare una forte discontinuità con Benedetto XVI, ma anche un approccio diverso ai problemi rispetto agli altri suoi predecessori. Questo nuovo avvio gli ha dato un’enorme popolarità, proprio perché ve ne era la necessità. Basti pensare, in tal senso, alla dura invettiva contro il potere ecclesiastico e all’atteggiamento ‘democratico’ di condivisione popolare dei destini della gente comune.

Misericordia è divenuta così la parola guida di un magistero che si è fatto interprete di una logica globale ormai non più eurocentrica della Cristianità, segnata dalla prospettiva di una ‘’Chiesa in uscita’’, tremendamente affascinante e suggestiva.

Oggi però bisogna notare che la ‘politica’ di papa Bergoglio sta trovando una duplice contrarietà. Da un lato, la logica dell’accoglienza si scontra con dei flussi migratori che sono divenuti da un paio d’anni incontrollati e incontrollabili, dall’altro la sua apertura ecumenica al mondo islamico deve far fronte all’acuirsi del fondamentalismo, il quale, oltretutto, deriva da una stessa confessione musulmana tra le più diffuse tra i profughi che giungono in Italia e in Europa.

Una verifica di questo banco di prova che deve superare adesso Francesco è dato da due nuovi fatti importanti che sono sopraggiunti: il primo è legato ad una crescita d’impopolarità che è andata montando soprattutto nel nostro Paese nei suoi riguardi, e la seconda dalle recenti minacce, dopo i torbidi di Barcellona, che l’Isis ha rivolto direttamente contro il Pontefice, contro la Cristianità e nello specifico contro la nostra nazione.

Qui emerge un paradosso abbastanza sconcertante, a dire il vero. La Chiesa che si fa interprete dell’accoglienza, atto esattamente opposto alla colonizzazione e allo spirito crociato, e viene accusata di essere il nemico numero uno del fondamentalismo islamico. E la Chiesa Cattolica, che si fa portatrice di un messaggio di carità, di misericordia e di apertura universale, viene sempre più digerita male dall’opinione pubblica italiana, impaurita e preoccupata dalla propria grave situazione concreta.

È difficile giudicare, ma conviene tuttavia riflettere a fondo e dire qualcosa di sensato.

Per quanto attiene alla politica dell’accoglienza, è chiaro che il papa non può non esortare alla benevolenza verso persone umane disperate che giungono tra noi. Anche se, è bene precisare, che la carità come virtù soprannaturale non può diventare un criterio politico senza che alla sua base vi sia la giustizia naturale. Benedetto XVI non a caso, nella Deus caritas est, ha chiaramente ribadito che l’opera della Chiesa è orientata alla carità mentre lo Stato, purificato dalla Chiesa stessa nella sua autonoma testimonianza cristiana, deve riflettere la giustizia: una giustizia che non può escludere la carità ma non può neanche venir meno come prerogativa sostanziale della missione peculiare e laica dello Stato.

Il problema, pertanto, non è l’accoglienza, ma il modo in cui sia possibile integrare enormi flussi migratori garantendo giustizia per tutti, cominciando dagli italiani. La opzione a favore dello Ius Soli è, per questa ragione, tanto controversa, e, a mio modo di vedere, totalmente sbagliata. Una società come la nostra che rapidamente sta assumendo tante persone estranee alla cultura nazionale, senza che vi sia stata una domanda economica da soddisfare con tali presenze, rischia di trasformare tale disponibilità in ingiustizia, la cittadinanza concessa in rigetto, e la benevolenza in razzismo.

Stiamo attenti!

Dal punto di vista cattolico il Papa, e la Chiesa con lui, non può e non deve dire al governo italiano quale sia la scelta migliore da prendere, se andare nella direzione dello Ius Soli o no, e in quale maniera gestire i rimpatri, l’accoglienza e così via. Non compete infatti al potere spirituale occuparsi delle cose temporali, tanto quanto non ha interessato a Gesù entrare nel merito del prelievo fiscale che Cesare faceva sulla comunità ebraica della Palestina.

Lo Ius Soli può essere giudicata quindi una linea politica sbagliata senza che con ciò piovano anatemi o accuse. In effetti in questo momento riconoscere diritti nativi a chi arriva è un atto di giustizia, prima ancora che di carità cristiana, ma dare la cittadinanza generalizzata a stranieri non costituisce di per sé una conseguenza logica, segnando il riconoscimento di un’appartenenza particolare alla nostra nazione che richiede ovviamente una prova di omogeneità culturale, linguistica, tradizionale assolutamente diversa da quella richiesta negli Stati Uniti o in America Latina. Oltretutto, è bene precisare che la cittadinanza non è un diritto riconosciuto alla persona, ma un dovere che ogni persona umana ha verso la propria Patria, la propria comunità, la propria costituzione, e così via.

Mi dispiace dirlo, ma io se dovessi emigrare non rinuncerei mai alla mia cittadinanza italiana. E, soprattutto, non mi aspetterei che mi venisse concessa o che venisse concessa ai miei figli solo perché nati in un luogo diverso da dove provengono.

Vi è, in aggiunta, però anche la seconda questione che riguarda le minacce ignobili che il Papa sta subendo. È chiaro che l’Isis odia la cristianità e la sua massima autorità pubblica.

Ma ciò dovrebbe spingere a osservare che la caratteristica essenziale del cristianesimo non è l’auto soppressione pratica, bensì la difesa della propria identità religiosa fino al martirio, una difesa che non si contrappone ma si compone con quella delle altre culture, nel segno dell’apertura e della carità. Benedetto XVI spiegava che non soltanto ogni popolo ha una propria cultura, che va rispettata, ma che la Chiesa è una parte di questo tutto umano, la quale va salvaguardata rigidamente come determinazione specifica pubblica dalla gerarchia ecclesiastica: una parte (coetum baptizatorum) che vive in funzione del tutto dell’umanità.

Forse è giunto il momento di rileggere Sant’Agostino che nel De doctrina cristiana spiega come la carità si regga su un primo amore che è l’amore orgoglioso per Dio e se stessi, dal quale, e solo dal quale, può scaturire in modo sovrabbondante l’amore per il prossimo.

Anche San Tommaso chiarisce che la misericordia è elevazione dell’altro alla verità, non abbassamento di se stessi all’altrui falsità. La difesa della verità conosciuta con la ragione, illuminata dalla fede oggettiva, è condizione indispensabile per trasmetterne il messaggio universale di Cristo in modo personale, pratico e generoso, e non viceversa.

Dobbiamo, in fondo, abituarci a capire che il bene non è il buonismo, con la stessa profondità con cui ci siamo abituati a assimilare il fatto che la religione non è il fondamentalismo. E la Chiesa Cattolica non è soltanto un’istituzione universale ma anche un soggetto particolare.

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