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L’attualità del sogno di Martin Luther King

Martin Luther King

28 agosto 1963; erano passati cento anni da quando Abramo Lincoln aveva abolito la schiavitù, almeno sulla carta. Quel giorno, al Lincoln Memorial, Martin Luther King pronunciò il suo storico discorso, quello sul sogno. Nel libro “The Speech” Gary Younge, editorialista di The Guardian, ha scritto che tutta la parte più memorabile di quel discorso, “I have a dream”, fu aggiunta a braccio, all’ultimo momento. Martin Luther King, lo stesso anno, confidò allo studente Donald Smith d’aver “deciso improvvisamente” d’evocare l’idea del sogno. Potrebbe anche essere stato influenzato dalla cantante gospel Mahalia Jackson, intervenuta poco prima, quando gli gridò: “Raccontaci il sogno, Martin!”

Ricordare quel giorno è importante, perché oggi sembra che sognare sia proibito. Sembra sia lecito solo avere paura, temere e quindi odiare. Odiare i bianchi, i neri,  gli zingari, gli arabi. Odiare i musulmani, gli ebrei, i cristiani, i non credenti, gli omosessuali; odiare l’altro. La paura autorizza la repressione, che genera l’estremismo, che legittima la paura. Una spirale che non sembra avere via d’uscita. Ma questa, che a noi sembra una deriva dell’oggi davanti alla quale prendere atto di una novità e regolarci di conseguenza, per King era una deriva nota, presente, assillante, già nel 1963. “C’è qualcosa che debbo dire alla mia gente che si trova qui sulla tiepida soglia che conduce al palazzo della giustizia. In questo nostro procedere verso la giusta meta non dobbiamo macchiarci di azioni ingiuste. Cerchiamo di non soddisfare la nostra sete di libertà bevendo alla coppa dell’odio e del risentimento.” L’altro per King non era un nemico, il bianco non era un sopraffattore dei neri. “ Questa meravigliosa nuova militanza che ha interessato la comunità nera non dovrà condurci a una mancanza di fiducia in tutta la comunità bianca, perché molti dei nostri fratelli bianchi, come prova la loro presenza qui oggi, sono giunti a capire che il loro destino è legato col nostro destino, e sono giunti a capire che la loro libertà è inestricabilmente legata alla nostra libertà. Questa offesa che ci accomuna, e che si è fatta tempesta per le mura fortificate dell’ingiustizia, dovrà essere combattuta da un esercito di due razze. Non possiamo camminare da soli.” Chi oggi sa dire “non possiamo camminare da soli”?

Cento anni dopo la cancellazione della schiavitù, un pagherò non corrisposto a milioni di neri americani,  Martin Luther King invitava a vedere i bianchi come fratelli offesi. Non parlò di qualche “bianco moderato” che si distingueva dalla “violenza dei veri bianchi”, magari timidamente e comunque in modo insignificante. No. Lui invitava a tornare nei vari stati del Sud “razzista e discriminatore” con questo spirito: “Ritornate nel Mississippi; ritornate in Alabama; ritornate nel South Carolina; ritornate in Georgia; ritornate in Louisiana; ritornate ai vostri quartieri e ai ghetti delle città del Nord, sapendo che in qualche modo questa situazione può cambiare, e cambierà. Non lasciamoci sprofondare nella valle della disperazione.” Non sprofondare nella disperazione non nel nome della vendetta, ma nel nome del sogno. “E perciò, amici miei, vi dico che, anche se dovrete affrontare le asperità di oggi e di domani, io ho sempre davanti a me un sogno. E’ un sogno profondamente radicato nel sogno americano, che un giorno questa nazione si leverà in piedi e vivrà fino in fondo il senso delle sue convinzioni: noi riteniamo ovvia questa verità, che tutti gli uomini sono creati uguali. Io ho davanti a me un sogno, che un giorno sulle rosse colline della Georgia i figli di coloro che un tempo furono schiavi e i figli di coloro che un tempo possedettero schiavi, sapranno sedere insieme al tavolo della fratellanza. Io ho davanti a me un sogno, che un giorno perfino lo stato del Mississippi, uno stato colmo dell’arroganza dell’ingiustizia, colmo dell’arroganza dell’oppressione, si trasformerà in un’oasi di libertà e giustizia. Io ho davanti a me un sogno, che i miei quattro figli piccoli vivranno un giorno in una nazione nella quale non saranno giudicati per il colore della loro pelle, ma per le qualità del loro carattere. Ho davanti a me un sogno, oggi![…]  Con questa fede saremo in grado di strappare alla montagna della disperazione una pietra di speranza. Con questa fede saremo in grado di trasformare le stridenti discordie della nostra nazione in una bellissima sinfonia di fratellanza.”

C’è un’attualità sconvolgente nel sogno di Martin Luther King. È attuale nell’America di Charlottesville, nell’Italia che teme dei bambini e  la cittadinanza di un Paese riconosciuta a chi lì è nato. È attuale nell’odio nichilista dei terroristi, nella diffusa indisponibilità a denunciarlo come tale, nell’indisponibilità  a scorgere nella loro furia devastatrice la furia del nuovo radicalismo che si islamizza perché quella dell’Isis è la sola bandiera di odio globale globalmente diffusa, nel loro bisogno di renderla globale attraverso il nome di Dio. In questa attualità non c’è il rischio del tramonto  della fratellanza? Non c’è il rischio del tramonto della fede nei diritti civili, nella cittadinanza?

Martin Luther King, un vero profeta del Terzo Millennio prima che cominciasse, aveva capito tutto del nostro presente, che per lui era un lontano domani: “o impareremo a vivere insieme come fratelli e sorelle o periremo tutti come degli stolti”. Queste sue parole ci parlano di noi, oggi, qui in Europa. Ci parlano degli arabi oggi, nei loro paesi di oggi. Martin Luther King pose al centro del discorso fondante della lotta per i diritti dei neri d’America la fratellanza con i bianchi d’America. Pensarci oggi ci fa enormemente bene, prima che sia troppo tardi.

Il sogno di Martin Luther King ci dice che se una civiltà viene presentata come votata alla conquista anche le altre possono essere presentate così. Se una civiltà viene presentata come schiavista anche le altre possono essere presentate così. Ma allora perché cediamo alle ideologie dell’odio? I motivi sono tanti. In questa sede mi sembra impossibile non fare riferimento ad alcune interpretazioni molto importanti.  Prima di morire il grande antropologo Renè Girard sul terrorismo ha detto: “L’errore di sempre è di ragionare secondo le categorie della “differenza”, mentre la radice dei conflitti è piuttosto quella della “concorrenza”, la rivalità mimetica tra gli esseri, i Paesi, le culture. La concorrenza, ossia il desiderio di imitare l’altro per ottenere la stessa cosa che ha lui, all’occorrenza anche tramite la violenza.  Senza dubbio il terrorismo ha radici in un mondo “differente” dal nostro, ma ciò che suscita il terrorismo non è da ricercare in questa “differenza” che lo allontana sempre più da noi e ce lo rende inconcepibile. È al contrario da ricercare in  un desiderio esacerbato  di convergenza e  rassomiglianza.  I rapporti umani sono essenzialmente dei rapporti di imitazione, di concorrenza. Ciò che abbiamo oggi sotto gli occhi è una forma di rivalità mimetica in scala planetaria. Quando ho letto i primi documenti di Bin Laden ed ho riscontrato  i suoi  accenni alle  bombe americane  cadute in Giappone, ho capito ad un tratto che il  livello di riferimento è il pianeta intero, ben al di là dell’Islam. Sotto l’etichetta  dell’Islam  c’è una volontà di collegare e mobilitare tutto un terzo mondo di frustrati e di vittime nei loro rapporti di rivalità mimetica con l’Occidente. Ma nelle Torri distrutte lavoravano sia stranieri che americani. E per l’efficienza, la sofisticazione dei mezzi impiegati, la conoscenza che essi avevano degli Stati Uniti, gli autori degli attentati non erano anch’essi un po’ americani? Siamo in pieno mimetismo.”

La minaccia terrorista ci porta a temere “il musulmano”; perché questo diventa il nero, lo zingaro, lo straniero?

L’altro, lo straniero, in tempi lontani era l’ospite, che ci parlava di un mondo a noi sconosciuto. Oggi invece l’altro mina un bisogno: quello di recuperare un’identità che sentiamo minacciata. E così vietiamo il burkini, divieto che non risponde ad un’esigenza di sicurezza, quella si garantisce imponendo di non coprire il proprio volto.  Risponde all’esigenza di sentirci tutti uguali? Il cardinale Bergoglio, arcivescovo di Buenos Aires, parlò di città globale, una città fatta di grandi centri commerciali che in tutto il mondo vendono gli stessi prodotti, diffondono le stesse mode. Questa città entra nelle città locali e le trasforma, assorbe il tempo libero, l’investimento, il divertimento. E lascia alla città locale la gestione dei problemi, delle pene, dei traffici illeciti, delle buche per strada, dell’illuminazione carente, delle criminalità. Lì, nella città globale, non ci sono buche, la luce non è mai carente, lì ci sono i luoghi di svago, lì ci si diverte. Questa città globale, fatta degli stessi esercizi, degli stessi prodotti, degli stessi ambienti, ha immiserito la città locale, nella quale viviamo con i jeans strappati o i telefonini che sono gli stessi in tutto il mondo e che in tutto il mondo si comprano nella stessa città globale. Dunque è il mercato che distrugge identità. E’ questo che ci accomuna, ci impoverisce e ci impedisce di sentirci “fratelli”? Solo colore della pelle e religione ci consentono di riconoscere l’altro, e allontanarlo, per ritrovare un’identità smarrita?

Parlare di Martin Luther King oggi non è parlare di ieri, è parlare di oggi. Il sogno americano di questo pastore è il sogno Europeo di Bergoglio: “sogno un’Europa della quale non si possa dire che il suo impegno per i diritti umani è stato la sua ultima utopia.” Le critiche sempre più ricorrenti a  questo diritto a credere in noi stessi, nei valori fondanti della nostra civiltà, sono le prove drammatiche dell’attualità sconvolgente di Martin Luther KIng.

 

 

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