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Come liberare scuola e università dagli ideologismi

Lingotto, 5 stelle, molestie

La scuola e l’università sono tornate in questi giorni alla ribalta sulle pagine dei giornali. Speriamo che non sia un fuoco di paglia, considerata la centralità del tema della formazione nella società umana. Cosa ha da dire, possibilmente di non banale, su questo tema un liberale? Anche se lo spazio del liberalismo dovrebbe essere quello del pensiero non deterministico, spesse volte anche i liberali sono vittime di automatismi mentali. Quando si parla di scuola, il liberale ripete subito ad esempio il mantra del “buono scuola”, la cui introduzione sarebbe certo auspicabile ma che sicuramente non sarebbe il toccasana taumaturgico di ogni male. Oppure, si concentra sul “valore legale del titolo di studio”, che certo andrebbe abolito ma che ormai di fatto conta sempre meno nelle dinamiche di assunzione o di carriera persino nei ruoli statali.

Sarebbe forse più utile, anche per i liberali, introdurre nel dibattito pubblico un ragionamento sui contenuti e i metodi dell’insegnamento e, soprattutto, sui suoi fini. A cosa oggi serve la scuola e a cosa l’università? E, di conseguenza, cosa devono insegnare e in che modo? Domande classiche, certo, ma la cui risposta è sempre cambiata nel tempo e risulta tanto più impellente oggi nella società della connessione totale e dell’informazione in tempo reale.

Le stesse istituzioni liberali potranno avere un futuro solo se si avrà consapevolezza diffusa delle virtù che ne sono alla base e che vanno strenuamente difese e trasmesse alle nuove generazioni. Un discorso sui contenuti, e prima ancora sui fini, si impone perciò. Ed è nella sua cornice che andrebbe impostato anche il discorso sulla “buona scuola” in genere, e sul prolungamento dell’età di studio poi (tema quest’ultimo sollevato in un recente intervento del ministro Valeria Fedeli).

Vedo che lo si è cominciato a fare, ad esempio con un recente articolo di Alberto Asor Rosa su la Repubblica e poi ieri con quello di Nuccio Ordine sul Corriere della Sera. Ma vedo altresì che quasi sempre, nei pur dotti ragionamenti che vengono fatti, si sovrappongono e mescolano i due compiti molto diversi che tradizionalmente vengono riservati al processo e al sistema formativi. Compiti che certamente, nella prassi, spesso si intrecciano, ma che pure concettualmente andrebbero tenuti rigorosamente separati e distinti: il compito di preparare al lavoro, di rendere compatibile cioè la formazione di ognuno con le competenze richieste dal mercato; e il compito di dotare quelli che saranno i futuri cittadini di una capacità di orientarsi e stare nel mondo in modo critico e consapevole. Si può essere infatti bravi tecnici ma avere una personalità e una cultura carenti.

Questo, in verità, accade sempre più nel nostro mondo, il quale, per sua natura, tende da una parte a esigere saperi adatti al lavoro, dall’altra a scambiare la cultura con il possesso di queste capacità tecniche o peggio con una sorta di medieta pseudoculturale fatta di “pensiero facile” e correctness di maniera. Lo stesso discorso sulla meritocrazia perde buona parte del suo senso se è inserito, come spesso avviene, in questo contesto: d’accordo sulla valutazione di docenti e discenti, ma una cosa sono i metodi appropriati alla valutazione della competenza e preparazione specifica di un futuro lavoratore, professionista o manager; altra cosa, quelli che dovrebbero portare a valutare la cultura e il livello di maturità raggiunta dal singolo. Di grazia, può essere mai un sapere tecnico e formalizzato, che è quello esemplificato dai test, a valutare la formazione e il livello di maturità, culturale e umana, raggiunta da un allievo o da un professore?

Certo, oggi si intende misurare e valutare anche la creatività e i lati simbolici e immateriali della nostra personalità, ma è impresa vana cercare di farlo attraverso la mediazione di un pensiero meccanicistico. Come diceva quel grande pensatore che risponde al nome di Michael Okeschott, oggi si vuole razionalizzare e standardizzare secondo modelli anche ciò che per principio è altro e dovrebbe essere affidato a una consapevole spontaneità. Quello che è e sarà sempre centrale, in questo secondo senso, è il rapporto allievo-maestro, il processo di interazione fra due autonome personalità che si attua per virtù propria nel processo educativo. Ha perciò ragione Ordine quando rivendica questa centralità, ma egli dimentica che l’università deve preparare anche e forse soprattutto al lavoro e che la scuola, a cui forse dovrebbe essere delegato soprattutto l’altro compito, non ha oggi in sé gli anticorpi adatti a generare quel processo virtuoso che è l’apprendimento. Ciò avviene non solo perché i docenti sono poco formati e motivati, ma anche perché la loro formazione è dominata da un’ideologia di sinistra e tardosessantottina che comunque non è la più adatta a instillare le virtù del dubbio e dell’anticonformismo su cui solamente può svilupparsi una vera cultura e la stessa società libera. Anche se ciò va in contrasto con l’introduzione nelle nostre scuole della cosiddetta “alternanza scuola-lavoro”, mi chiedo se non sia utile cominciare a ragionare in un’ottica di specializzazione di scuola secondaria e università.

In sostanza, a me sembra che sarebbe giusto da una parte distinguere scuola e università in base ad una loro diversa “destinazione d’uso”, proiettando l’università più sul lavoro e meno sulle discipline umanistiche (la cultura non è tutto sommato circoscrivibile ad un percorso accademico); e concentrando la scuola secondaria sulla formazione classica, liberandola però prima dall’ideologia di sinistra che la domina. A ben vedere chi ha interessi culturali veri e non effimeri sa che la cultura vera, quella speculativa e pregna di senso storico, è circoscrivibile ad un percorso accademico o a una forma istituzionalizzata di sapere. Meno che mai nel mondo d’oggi.

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