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Come e perché Trump e Pentagono sono imbufaliti per i droni cinesi

C’è un mercato dove, mentre il presidente americano Donald Trump cerca di fermare a suon di dazi e sanzioni l’avanzata delle aziende cinesi, una start up nata in Cina sta sbaragliando la concorrenza statunitense. Si tratta del mercato dei droni, un business che, secondo le stime di Gartner, nel 2020 varrà 11 miliardi di dollari. Quando il fondatore della ditta cinese DJI Frank Wang, nativo di Hangzhou, nel 2006 lavorava ai suoi primi prototipi nel dormitorio della Hong Kong University of Science and Technology, nessuno avrebbe puntato un dollaro sul mercato dei droni: ritenuti troppo costosi per essere commerciati, se ne ignoravano le applicazioni nel settore ricreativo e civile.

Doveva essere una meteora destinata a schiantarsi presto. A distanza di 11 anni dagli esperimenti di quel giovane studente cinese, Frank Wang ha 37 anni ed è il Ceo di un’azienda, la DJI, che ha un valore di 10 miliardi di dollari e domina uno dei mercati globali nell’high-tech più redditizi. Nel frattempo la concorrenza a stelle e strisce arranca alle spalle del Dragone, secondo alcuni addetti ai lavori.

La californiana Gopro presenta di continuo cifre in rosso al Nasdaq e ha dovuto ritirare dal mercato i suoi droni “Karma”, perché un difetto di produzione li faceva cadere in volo. La Lily Robotics, startup creata nel 2013 in California da due studenti della UC Berkeley con lo scopo di lanciare un drone di lusso, ha chiuso i battenti questa primavera. Sempre negli States, la 3D Robotics, l’unica azienda che riusciva a tenere testa al colosso cinese, ha fermato la produzione di droni nel 2016 e oggi produce solo software. Neanche la parigina Parrot è riuscita a stare al passo, tagliando il 35% del personale del team per i droni.

Joshua Bateman sulla Cnbc racconta lo stradominio della DJI. 17 stabilimenti in tutto il mondo: a Shenzen la manifattura perché costa meno, a Hong Kong la logistica, a Tokyo lo sviluppo delle telecamere, i programmatori a San Mateo in California mentre il team di creativi e quello delle pubbliche relazioni lavorano fra Los Angeles e New York. 8000 dipendenti, di cui 1500 impegnati nel settore Ricerca e Sviluppo. È grazie ai soldi spesi nella ricerca se la DJI riesce sempre a stare un passo avanti. Mentre la ditta di Wang sviluppava il primo drone con una telecamera incorporata, i competitor ancora si sforzavano a stabilizzare il volo dei droni per poter sorreggere il peso di una telecamera esterna.

Poi la scalata al mercato americano. Una piazza in continua espansione, se è vero, come riporta NPD, che le vendite di droni negli States fra il 2016 e il 2017 sono aumentate del 117%. Dapprima producendo droni nel settore dell’intrattenimento. Come il Phantom, una vera bandiera dell’azienda, che costa tra i 500 e i 1500 dollari e ha fatto il boom di vendite anche grazie a una sapiente partnership dei cinesi con i negozi Apple. Poi con il più agile Mavic Pro da 1000 dollari, fino al recentissimo (e più accessibile) Spark, che è grosso quanto un palmo e si sposta seguendo i movimenti delle mani.

Una continua corsa al ribasso per offrire prodotti sempre più economici, resa possibile dai bassi costi di produzione in madrepatria, dove DJI assembla i droni: solo nel 2017, secondo Recode, i prezzi sono scesi del 70%. Sarebbe per questo che Chris Anderson, CEO della promettente 3D Robotics, ha deciso di uscire dal mercato dei droni. “DJI ha fatto tutto nel modo giusto” riconosce davanti ai microfoni della CNBC, “non c’è modo di competere con DJI sul lato dei consumatori”.

Il successo dell’azienda di Shenzen, ma soprattutto il fallimento delle imprese statunitensi, ha irritato non poco l’amministrazione di Donald Trump. Non è forse un caso che il 2 agosto il Pentagono abbia diffuso una nota per gli ufficiali dell’esercito intimando di “cessare qualsiasi uso, disinstallare tutte le applicazioni DJI, rimuovere tutte le batterie dai dispositivi e assicurare che gli equipaggiamenti seguano la direttiva”. Come unica spiegazione, i vertici militari si sono limitati a dichiarare che i droni del gruppo cinese, i più utilizzati nell’esercito americano, sarebbero vulnerabili ai cyberattacchi.

Un fulmine a ciel sereno nel bel mezzo dell’estate che ha colpito duramente l’azienda fondata da Frank Wang, ma senza metterla K.O. Il fondatore ha infatti reagito nominando subito un nuovo presidente, Roger Luo, per affrontare una nuova sfida: traghettare l’azienda dal settore ricreativo a quello commerciale. Dopo aver vinto la corsa dei droni da intrattenimento, sarà questo il campo su cui i competitors cercheranno di rilanciare le vendite in futuro: la priorità sarà data al mondo agroalimentare, dove la DJI ha già lanciato il drone Agras MG-1 per irrigare i raccolti, ma i cinesi scommettono anche sul trasporto umano e le consegne di pacchi già sperimentate da Amazon.

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