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Senza assistenza sul territorio la sanità della Regione Veneto è a rischio

Di Michele Valente
veneto

I governanti italiani sono maestri nell’annunciare leggi e riforme che sulla carta sembrano perfette, dettate dal buon senso e indirizzate al bene comune. Salvo poi tradurle in testi farraginosi, spesso scritti in “italiacano”, e non trovare comunque all’atto pratico una dignitosa realizzazione.

In campo sanitario uno degli esempi più eclatanti è stata la Legge Basaglia, che ha abolito i manicomi con la promessa che sarebbero state attivate strutture intermedie sul territorio in grado di accogliere i disabili mentali i quali però, nella realtà, sono ritornati nelle famiglie che devono farsi carico dell’assistenza e delle cure.

È questo il rischio concreto che corre la Regione Veneto con il suo Piano socio sanitario che per quanto riguarda l’assistenza sul territorio è rimasto un bel libro dei sogni perché tutto è fermo da anni. La decisione di ridurre i posti letto nei vari ospedali ha trovato attuazione in brevissimo tempo (si trattava di ridurre le spese!) ma l’attivazione delle Medicine di gruppo integrate – che avrebbe dovuto precederla – è pressoché ferma, così come non decollano i cosiddetti Ospedali di Comunità già programmati. Anche gli hospice, centri residenziali di cure palliative destinati ad accogliere i pazienti terminali che non possono essere assistiti a casa, sono decisamente insufficienti e malgrado le promesse di nuove attivazioni sulla base delle necessità delle singole Usl, non sono stati potenziati.

Le Medicine di Gruppo Integrate prevedono che i medici di famiglia si aggreghino in sedi uniche, lavorando assieme a infermieri e specialisti anche per fare fronte alle sempre più numerose richieste di pazienti cronici dimessi dagli ospedali: ottima idea che è rimasta sulla carta perché centinaia di richieste sono bloccate presso i comitati aziendali e sono state approvate dalla Regione ma non attivate dalle aziende restando “sospese in un limbo burocratico che nemmeno le aziende riescono ormai a giustificare” come scrivono i sindacati in un documento inviato a tutti i medici di medicina generale del Veneto.

In questa situazione di difficoltà e di promesse mancate i medici del territorio fanno quello che possono con gli strumenti che hanno a disposizione ma deve essere chiaro sia ai pazienti sia ai politici, che di fronte ad ammalati complessi non ci può essere un medico solo ma più professionisti e strutture con gli strumenti adatti. Per fare un esempio, se un assistito si reca nello studio del suo medico con un dolore toracico, al medico non resta altro da fare che invitarlo ad andare subito al pronto soccorso perché non ha a disposizione strumenti come l’elettrocardiogramma e il tempestivo dosaggio degli esami del sangue necessari per una diagnosi sicura. Qual è la prassi se serve un esame? Una prescrizione, il prelievo il giorno successivo e il referto sarà a disposizione dopo 2 o 3 giorni. Ovvio che, in un sistema così rigido, il pronto soccorso è la risposta più sicura.

Nella vulgata popolare c’è ancora la tendenza a considerare il medico di famiglia come un tuttologo ma la medicina in pochi decenni è profondamente cambiata (in meglio grazie alle rivoluzionarie scoperte scientifiche): i malati sono sempre più complessi, il più delle volte con pluri patologie che necessitano di controlli clinici ripetuti e della presa in carico da parte del medico di famiglia ed è quindi impossibile curare e trattare adeguatamente questi assistiti se al medico non si danno le tecnologie e gli strumenti (anche organizzativi) adeguati. Un risultato che si può ottenere solo grazie a una interazione professionale tra medici sul territorio e ospedalieri, che al momento sembrano due mondi che si ignorano.

In sostanza, se non prenderà corpo al più presto la riforma delle cure primarie sul territorio, così come era stata progettata e ventilata, il nostro sistema sanitario, tra i pochi a carattere universalistico, rischia un disastroso dissesto.

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La Procura antidoping del Coni ha trasferito alle Procure della Repubblica del Paese oltre 400 fascicoli che forniscono uno spaccato inquietante del mondo degli atleti “amatoriali” che ricorrono con colpevole incoscienza e superficialità a diverse sostanze dopanti per migliorare le loro prestazioni. L’espansione del fenomeno ha raggiunto livelli allarmanti come certifica il colonnello Zapparoli del Nas, il cui lavoro è cooordinato con il ministero della Salute e con il Coni: “Abbiamo formato 150 carabinieri come ispettori antidoping in 36 città, controlliamo decine di corse, profili Facebook e forum tematici per predisporre interventi mirati su gare e palestre”.

Sotto il profilo medico questa “moda perversa” crea non poche preoccupazioni perché il “doping fai da te” va dagli anabolizzanti ai diuretici, dall’Epo ai vari stimolanti e corticosteroidi e non conosce età. I casi più eclatanti vanno dal ragazzino quattordicenne che voleva vincere una gara ciclistica al cinquantenne ciclista toscano positivo all’eritroproteina, all’ottantenne saltatore veneto consumatore di steroidi. Detto della follia di ricorrere al doping per gare e manifestazioni che dovrebbero rappresentare un sano hobby, l’aspetto ancor più preoccupante è l’ignoranza di chi, per procurarsi queste sostanze proibite, si rivolge a gruppi di acquisto in mano a spacciatori con pochi scrupoli o ricorre a Internet dove è facile ottenere farmaci provenienti dall’est europeo il più delle volte scaduti. L'(a)morale della favola è che lo sport è utile e consigliabile per mantenersi in forma e non per rovinarsi la salute inseguendo la medaglietta.

Michele Valente è presidente dell’Ordine dei medici di Vicenza

 

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