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Ecco perché la sbruffona avidità di O’Leary sta facendo schiantare Ryanair

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La prima reazione al collasso organizzativo di Ryanair è di incredulità (non senza una certa perfidia). Ma come è possibile, una delle più grandi compagnie aeree del mondo, cocca della borsa che ha gonfiato le sue azioni (vale più di Lufthansa), non aveva idea delle ferie di chi lavora per lei? E vorrebbe comprare l’Alitalia la quale, con tutti i suoi pasticci non ha mai provocato un patatrac del genere? Non doveva lanciarsi nei voli transatlantici? Non doveva essere l’emblema del mercato e della concorrenza contro lo statalismo e il protezionismo che contraddistingue i mastodonti del volo?

Doveva esserlo e Ryanair lo è stata, ma alla lunga i magheggi del suo modello di business e della sua cultura d’impresa sono venuti alla luce. A questo punto, difficilmente potrà continuare come prima. Perché non si tratta di errori minori, di piccoli sbagli nella lista delle ferie, dietro c’è dell’altro, deve esserci dell’altro, non basta la spiegazione semplicistica data dal patron Michael O’ Leary (in foto).  “Il suo autogol si chiama dumping sociale”, ha scritto Il Sole 24 Ore.

Confesso che a me non è mai piaciuto viaggiare con Ryanair, non ho mai apprezzato il modo in cui vengono (mal) trattati i passeggeri, considerati in fondo degli sfigati perché vogliono spendere poco e accettano di essere un parco buoi. La tariffa base offerta come specchietto per le allodole, è talmente denudata che per avere le stesse condizioni di volo da altre compagnie low cost (per esempio Norwegian), alla fine si paga lo stesso prezzo. Soprattutto non ho mai amato l’idea che sul biglietto ci sia scritto Roma-Stoccolma mentre si arriva a oltre cento chilometri dalla capitale svedese (per non parlare di altri scali ancor più affollati).

Ma quel che mi è sempre sembrato un vero imbroglio ideologico riguarda gli incentivi pubblici (in Italia si stima qualcosa come 150 milioni l’anno) che la Ue ha consentito di “depenalizzare” anche se solo per gli scali sotto i tre milioni di passeggeri. Alla faccia della libera concorrenza e degli aiuti di stato sui quali in altri casi la signora Vestager è stata adamantina (forse è ora di non stendere più veli pietosi sul doppio standard che si usa troppo spesso a Bruxelles).

Bene, fatte queste reprimende (e altre sono rimaste nella penna) devo confessare che non nutro nessun sentimento di rivalsa. Anzi, ritengo un vero peccato che l’arroganza e l’avidità di Michael O’Leary stia rovinando una compagnia che ha avuto il merito di mettere in discussione regole del gioco che non facevano certo gli interessi dei passeggeri.

Ryanair ha rotto quel che era insostenibile nel mondo contemporaneo (il protezionismo delle compagnie di bandiera), ma adesso il suo modello non regge più. O’Leary è stato un battistrada e per questo va apprezzato, tuttavia anche per lui ora vale il principio della incompetenza formulato da Laurence Peter nel 1969: “Ogni cosa che funziona per un particolare compito verrà utilizzata per compiti sempre più difficili, fino a che si romperà”.

Una piccola compagnia “pirata” è una cosa, un gigante dei cieli è tutt’altro. Il giocattolo si è rotto e per aggiustarlo andrà ripensato, soprattutto se vuole competere su un mercato ormai affollato perché molti hanno attraversato la porta spalancata da O’Leary, ma con una maggiore capacità di gestire imprese complesse. Non tutte le low cost sono uguali; non solo, una grande linea aerea con tanti voli e a lungo raggio va organizzata in modo diverso.

Le crisi sono occasione di cambiamento dicevano i classici, può accadere anche nel trasporto aereo, una industria che attraversa una nuova fase di ristrutturazione in tutto il mondo. Molti adesso affilano i coltelli da affondare nella carne viva di Rynair. È il mercato bellezza! Tuttavia il mercato non esiste se i suoi molteplici attori non hanno almeno un canovaccio accettato da tutti. O’Leary ha recitato a soggetto, adesso deve studiare il copione.

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