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Vi spiego perché il Def è ancora condizionato dalla politica della lesina

L’ultimo Def, nella sua versione come Nota d’aggiornamento, si muove in stretta continuità con gli esercizi precedenti. Nel mezzo di una transizione europea che le ultime elezioni tedesche renderanno, con ogni probabilità, ancora più difficile. Qualche piccolo passo in avanti è stato compiuto, specie per quanto riguarda il tasso di crescita ipotizzato. Sarà leggermente superiore alle previsioni della scorsa primavera, ma ancora lontano dalle medie dell’Eurozona. Per cui quella distanza di circa 25 punti, con il resto dei nostri partner, è destinata ad aumentare, seppure ad un ritmo inferiore rispetto al passato più prossimo.

Luci ed ombre, quindi. Che è bene declinare. Condivisibile è il tentativo di addomesticare il “ciclo elettorale”. Anche se i conti definitivi andranno tirati giù dopo due passaggi parlamentari, che si preannunciano non semplici. Dove il tentativo di forzare la mano al governo, con prebende e mance di vario genere, si intreccerà con la discussione sulla possibile legge che porterà gli italiani alle urne. Maggiore sarà il possibile dissenso e più elevato il conto da pagare, a carico dell’erario. Due sono i pericoli da evitare come la peste. Da un lato un aumento ingiustificato della spesa corrente, seppure coperta con stanziamenti fantasiosi. Per fortuna il governo è intenzionato a porre fine alla telenovela delle cosiddette “clausole di salvaguardia” che ormai si trascinano da tempo immemorabile.
Ma ugualmente pericoloso è il drastico contenimento del deficit di bilancio, in presenza di un eccesso di capacità produttiva, ancora non pienamente utilizzata, e ristagno dei relativi investimenti. Che cresceranno, ma rimarranno, comunque, al di sotto di quasi 5 punti di pil, rispetto al 2007, secondo le stesse indicazioni di un grafico contenuto nella Nota d’aggiornamento (pag. 20). Al tempo stesso, la pressione fiscale dovrebbe rimanere pressoché invariata. Si scongiura – è vero – l’aumento dell’iva e delle accise, retaggio del passato; in compenso tuttavia, la manovra secondo le stesse parole del documento governativo sarà data “per due terzi” da “aumenti delle entrate e per un terzo da riduzioni di spesa”. Cambieranno quindi gli addendi, ma il totale dovrebbe risultare pressoché stabile.

Il fulcro dell’intera politica di bilancio è dato da un indebitamento netto strutturale pari all’1 per cento, che si riduce dello 0,3 per cento rispetto al 2017. Frutto di una complessa discussione in quel di Bruxelles alla continua ricerca di una flessibilità perduta e non pienamente ritrovata. Una coda velenosa – l’ultima si spera – di quel Fiscal compact che, da un lato non risolve i problemi dell’economia europea – si veda l’eccessivo valore dell’euro – e dall’altro è all’origine di quei sommovimenti – dalla Germania alla Catalogna – che fanno poco sperare, circa la ripresa di quella convergenza che era nelle speranze dei padri fondatori. La proiezione di questo dato statistico – più un entità misteriosa che non un valore contabile – sugli andamenti di finanza pubblica comporta una limitazione dell’indebitamento netto (parametro di Maastricht) all’1,6 per cento.

Matteo Renzi se ne rammaricherà. Rispetto ai suoi desiderati – un deficit pari al 2,9 per cento – la differenza è di circa 1,3 punti di Pil. Qualcosa come 23 miliardi che avrebbero potuto rappresentare la benzina necessaria per una più coraggiosa politica sul piano fiscale e di rilancio degli investimenti pubblici: a condizione che fossimo in grado di realizzarli effettivamente. Cantieri aperti e non semplici stanziamenti di bilancio che restano per anni dormienti nei meandri della Pubblica amministrazione. Per fortuna, se le previsioni del governo risulteranno esatte, questo “tesoretto” dovrebbe diventare ben più consistente, dato che l’indebitamento netto è previsto in calo, fino a scomparire nel 2020. La prossima legislatura sarà quindi cruciale per portare avanti una politica economica effettivamente orientata allo sviluppo.

Per il momento, invece, dobbiamo accontentarci. Avremo la stabilizzazione degli equilibri di bilancio, con una pur leggera diminuzione del rapporto debito pubblico-pil, ed una crescita del denominatore affidata, in prevalenza, alle forze spontanee del mercato. Sulla cui dinamica, tuttavia, è lecito esprimere più di un dubbio, come si è detto in precedenza a proposito del confronto con gli altri Paesi europei. La contraddizione più macroscopica – dato poco osservato – rimane quella del saldo attivo delle partite correnti della bilancia dei pagamenti. Che il Def colloca al 2,4 per cento del pil per l’intero periodo di previsione: anno terminale il 2020. Quale è il suo significato, in termini macroeconomici?

La dimostrazione che l’economia italiana, girando a basso regime, non riesce ad utilizzare tutte le sue risorse potenziali. Se non vi fosse questo limite, la bilancia dei pagamenti, nelle sue partite correnti, sarebbe dovuta risultare in equilibrio. Esiste, quindi, una spazio finanziario che, a causa di politiche restrittive, non viene utilizzato per una politica di sviluppo. Non ci si riesce perché, come si diceva una volta “il cavallo non beve”, ossia i privati non investono. Ma soprattutto perché quel ruolo di supplenza che lo Stato dovrebbe esercitare, di fronte a carenze di carattere strutturali, viene rifiutato, preferendo la politica della lesina. Sebbene non sia la prima volta che questo succeda, oggi siamo di fronte ad un Paese che esporta tutto. Esporta merci: un bene. Esporta o trattiene capitali inutilizzati, ricorrendo alla semplice tesaurizzazione: uno spreco. Ma soprattutto esporta uomini: le migliaia di giovani, costretti a recarsi all’estero per farsi una vita. Un male assoluto, che non possiamo assolutamente permetterci.

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