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Russiagate, ecco che cosa ha combinato Facebook

L’ultimo giro di informazioni contro Facebook esce dal Washington Post e dice che l’operazione di interferenza russa nelle presidenziali americane, quando è passata attraverso i post sponsorizzati del social network si è concentrata nella promozione di pagine e contenuti che potessero esasperare le divisioni interne nella società americana. Su questioni religiose, razziali, politiche: ci finivano in mezzo la libertà sulla detenzione di armi, tema più caro alla destra, o pubblicità a pagine del Black Live Matters, il movimento che chiede maggiori diritti e rispetto per gli afroamericani (che invece ha più consensi a sinistra).

Nei prossimi giorni i dati in mano a Facebook saranno condivisi con le Commissioni congressuali che stanno indagando l’ampia operazione di distrazione russa avvenuta durante le ultime elezioni. Il centro della questione lo spiegano tre fonti informate sulla vicenda al Financial Times: non è tanto a chi è stato dato sostegno (è una discolpa implicita per eventuali collusioni del vincitore, se vogliamo), perché Mosca ha fatto tutto questo per creare caos e divisione all’interno della società americana: “L’obiettivo non è quello di far credere a tutti che l’erba sia viola – ha detto una delle persone contattate dal FT – ma piuttosto portare un certo segmento della popolazione a pensare che sia rosa, un altro che sia verde, e rendere un altro segmento propenso a pensare che sia gialla”.

L’algoritmo che fa muovere le inserzioni pubblicitarie su Facebook ha reso facile (e tutto sommato economica) l’operazione, che oltre che sulla potenza tecnologia del social network ha potuto sfruttare tecniche della disinformatia simili a quelle sovietiche e s’è basata su un’ottima comprensione delle condizioni sociali americane. Oltre a quella mirate a sottolineare le polarizzazioni interne, giravano notizie che, per esempio, sottolineavano positivamente le mosse di Donald Trump, proposte ai repubblicani più scettici su di lui (quelli per esempio che dai dati a disposizione di Fb erano stati possibili votanti dei suoi contender all’interno del partito). Informazioni che invece mettevano in cattiva luce Hillary Clinton venivano passate ai democratici che avevano votato il suo principale avversario, Bernie Sanders. E via via con questo lavoro a insiemi per colpire in modo mirato le varie cerchie del corpo elettorale.

Stando alle regole attuali, l’assoluta libertà che i giganti della Silicon Valley si sono fatti concedere flirtando con la politica, dà la possibilità a Facebook et alii di non verificare chi da dietro sfrutta i sofisticati algoritmi che muovono questi sistemi tecnologici per diffondere messaggi che possono influenzare i cittadini (e dunque gli elettori); non è come in Tv, dove se si vuol mandare in onda un contenuto politico occorre una tracciabilità su chi pubblica. Da quando all’inizio dell’anno da Palo Alto rivendicavano il diritto alla libertà estrema dichiarando che non c’era nessun genere di problema, però, le cose sono cambiate rapidamente: all’inizio della scorsa settimana Mark Zuckerberg ha fatto sapere di essere pronto ad accettare revisioni: quasi una rassegnazione all’idea che una maggiore supervisione sia inevitabile.

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