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Perché il super paper su Mediaset e Berlusconi non mi convince

Di Franco Debenedetti
Statalizzazioni

Pubblichiamo il commento di Franco Debenedetti sul paper “Market-based Lobbying: Evidence from advertisement spending in Italy” a firma di Stefano della Vigna, Ruben Durante, Brian Knight, Eliana La Ferrara e pubblicato da American Economic Journal: Applied Economics 2016, 8 (1) pp 224-256 (qui l’articolo di Formiche.net sul paper)

Oltre al lobbying classico, in cui il danaro fluisce direttamente dall’azienda al politico, esiste il market-based lobbying: una strategia che porta a finanziare il politico indirettamente, aumentando l’utile di un’azienda da lui posseduta, comperando in maggior quantità i suoi prodotti. Questo è avvenuto, vogliono dimostrare gli autori, per la pubblicità comperata da Mediaset (rectius, prima del 1996, da Fininvest), cresciuta, nei periodi in cui Berlusconi era al governo, soprattutto da parte di aziende regolate, che evidentemente si aspettavano di ricavarne vantaggi diretti. Il risultato è stato un aumento del profitto di Mediaset di oltre 1 miliardo di euro. Il fatto che in 9 anni si siano succeduti periodi in cui Berlusconi è stato primo ministro e periodi in cui è stato all’opposizione, offre un’occasione rara per studiare le correlazioni.

Aziende regolate, benefici regolatori

Un’azienda viene dagli autori classificata come “regolata” in base alle risposte ottenute somministrando un questionario a 26 economisti italiani, in cui si chiedeva quanto le industrie, in un elenco di 22 settori, e su una scala da 1 a 10, potessero individualmente o collettivamente beneficiare di politiche governative; e, per conferma, in quante ricerche su Google Search il nome dell’impresa fosse associato a un nome indicante regolazione (pp.238-9).

Gli autori passano quindi ad analizzare l’andamento delle spese per pubblicità sulle due emittenti, Mediaset e Rai, nei periodi in cui Berlusconi era o non era al governo; trovano che sono maggiori per Mediaset durante i governi Berlusconi, in particolare per le aziende regolamentate (come sopra definite); deducono che esse l’hanno fatto perché contavano di avere benefici regolatori dal governo; analizzano, in modo tecnicamente raffinato, le variazioni di prezzo indotte dai maggiori investimenti pubblicitari in un mercato sostanzialmente anelastico.

Un caveat e i limiti di un’inferenza

A p.229 si trova un caveat: our analysis […] only focuses on one side of the exchange between firms and politicians – i.e firm’s spending decisions – and does not document the policy favors provided to firms in exchange. Cioè assumono che le regulated firms receive a political benefit (227), e che esso sia conseguente a una regolazione più compiacente.

Nei Paesi in cui è largamente diffuso il lobbying diretto, gli effetti sono subito percepiti: se chi ha contribuito alle spese elettorali del presidente diventa ambasciatore, se alle banche viene di nuovo consentito il proprietory trading, se si modifica la legge Dodd-Frank. È del tutto non credibile che con il market-based lobbying nulla trapeli nel discorso pubblico di quanto viene richiesto e di quanto viene concesso, e i “regali” arrivino sotto l’albero di Natale, all’insaputa di un’opposizione pure tanto assidua nel tallonare il “caimano”.

Il percorso logico degli autori parte dall ’osservazione empirica che, quando Berlusconi è al governo, aumenta la quota della spesa pubblicitaria su Mediaset sul totale Mediaset più Rai, e quella delle “aziende regolate” rispetto a quelle “non regolate”. (Proposition 4, p.234). Vi trovano la conferma della key prediction del loro modello, e cioè che esista il market-based lobbying e che sia concentrato nei settori industriali che hanno un higher scope for regulatory favors (p.238).

Già la definizione di imprese con vantaggi “regolamentari” è debole: sia nel modo di individuarle (le risposte dei 10 economisti, sui 22 interpellati, che hanno risposto al questionario), sia nel modo di definirle: tutte le aziende infatti possono avere vantaggi da government policies, e.g. public expenditure, regulation, subsidy.

Già, come si diceva, gli autori stessi riconoscono che la loro analisi si concentra sulle spese sostenute e non fornisce nessun esempio dei favori accordati.

È questo il vero limite dello studio. Si trova un’unica causa per l’aumento delle spese pubblicitarie, e proprio l’averla trovata, pur senza nessuna prova dello scambio di favori fra acquisto di pubblicità e regolazione compiacente, serve a scartare a priori qualsiasi altro rapporto causale. Che del resto viene aprioristicamente negato, in quanto non corrispondente alla key prediction.

Un diverso rapporto causale

Si fa pubblicità per aumentare i ricavi, per effetto diretto della pubblicità sulle vendite (i consumatori, resi edotti dell’esistenza di un prodotto, vanno ad acquistarlo). Oppure, sostengono gli autori, può fare aumentare gli utili, per un effetto indiretto: il governo, compiaciuto della réclame acquistata su Mediaset, garantisce privilegi di vario tipo. Ma in entrambi i casi sono decisioni economiche, e queste dipendono da un numero enorme di fattori: propriamente politici, giudizi su maggioranza e opposizione, aspettative sul governo in carica; vincoli su temi sociali, lavoro e pensioni; assetto regolatorio; norme giuridiche (sul conflitto di interessi); struttura del sistema industriale, sia quanto a dimensione di impresa, sia quanto a proprietà, pubblica o privata. Se ne danno alcuni spunti, solo a titolo di esempio. Per ragioni epistemologiche l’indagine, se dev’essere altro che la brillante costruzione di un modello, deve partire dalla ricognizione dei fattori influenti; individuare le molteplici relazioni causali tra questi e le decisioni di spesa; e solo alla fine verificare se una key prediction ha maggiore potere esplicativo di rispetto ad altre.

Il fattore politico Berlusconi 

Che Berlusconi, nel 1994, fosse “a successful entrepreneur” (p.235) sintetizza in modo un po’ sbrigativo la vicenda forse più tormentata della nostra storia industriale. Quella per liberalizzare de jure il settore televisivo è stata una Guerra dei 30 anni, di cui ho documentato le vicende nell’omonimo libro (Einaudi, 2009). Nel 1994 gli avversari di Berlusconi lo accusarono di essere entrato in politica per salvare le sue televisioni (p.235): neppure si accorgevano che così svelavano i propri intendimenti e davano sostanza ai timori del Cavaliere. La sua azienda aveva dato agli italiani una Tv più libera contro quella bacchettona della Rai, il colore contro il bianco e nero; aveva offerto un nuovo  strumento di marketing a imprenditori grandi e piccoli, prima rassegnati a fare la coda (e a generosamente comperare pubblicità sui giornali di partito) per poter trasmettere i loro annunci nei pochi minuti di Carosello; aveva contribuito in modo decisivo, con le sue aggressive proposte pubblicitarie, alla crescita del mercato interno. Se Berlusconi in pochi mesi fondò un partito, concluse alleanze politiche, e vinse le elezioni (p.235) è perché, avendo forzato la prima liberalizzazione, e proprio nel settore dell’informazione, il più religiosamente custodito, era il credibile portatore di un progetto di politica di libertà contro chi, nello schieramento opposto, nutriva un’irresistibile propensione per soluzioni stataliste, quando non si dichiarava expressis verbis per la rifondazione del comunismo.

Nel 1994 furono le promesse di un milione di posti di lavoro e di portare il partito liberale di massa, nel 2001 il contratto con gli Italiani, nel 2006 l’abolizione dell’Ici: che le promesse fossero poi mantenute o no, quello di Berlusconi viene percepito in ogni caso e con chiarezza e da una larga parte del mondo imprenditoriale come un governo business friendly. Chi non ha  visto di persona il consenso travolgente raccolto dal Cavaliere al Convegno di Confindustria a Verona del 2001 ( “Antonio, il tuo progetto è il mio!”) o a quello di Vicenza del 2006, non può avere un’idea di quanto forte fosse l’attesa di un governo pro-market presso gli imprenditori piccoli e medi.

Regolazione e regolatori

La legge italiana prevede che tutte le aziende siano sottoposte all’Antitrust per i profili concorrenziali, e quelle quotate alla Consob; che le aziende che operano in determinati settori siano sottoposte ad autorità di vigilanza; che altre lo siano ad autorità di regolazione, che stabiliscono prezzi e condizioni di fornitura. Autorità di vigilanza sono, per le Banche, la Banca d’Italia, per le assicurazioni, l’Ivass.

Autorità di regolazione: quella per l’energia elettrica ed il gas (e più recentemente l’Acqua), per Enel, Edison, municipalizzate elettriche, Eni, oggi Terna e Sam Rete Gas; quella per le  telecomunicazioni, per Tim e suoi concorrenti, Mediaset e altre minori; quella per i trasporti (stabilita successivamente) per Ferrovie, trasporti locali, autostrade.

Tutte le autorità nazionali fanno riferimento a loro volta a corrispondenti Autorità Europee.

I membri dei collegi sono scelti in vario modo, ma mai sono espressione di un solo partito politico. La governance prevede che si tratti di autorità indipendenti, e i loro membri debbono avere determinati requisiti professionali. I presidenti sono nominati, per l’Antitrust, dai presidenti di Camera e Senato, per le autorità di regolazione dal Presidente della Repubblica su proposta del Presidente del Consiglio dei Ministri. Le autorità sono asincrone rispetto ai parlamenti perché durano in carica 7 anni.

Gli ultimi presidenti delle maggiori  autorità di regolazione sono stati: per Elettricità&Gas, Ranci 1998, Ortis 2004 e Bortoni 2011; per Comunicazioni Casavola 1996, Cheli 1998, Calabrò 2005 e Cardani 2012.

Sembra si possa escludere che, con un simile apparato, il governo possa dispensare favori, ancor più senza che se ne discuta e se ne abbia notizia.

Imprese controllate dallo Stato

Gli autori non forniscono l’elenco nominativo delle aziende “regolate”. Ma se pensiamo alle quotate, le maggiori di esse sono controllate o dallo Stato – Eni, Enel, Terna, SnamRetGas, Leonardo (ex Finmeccanica), Poste, Ferrovie – o dai Comuni – A2A, Hera, Iren, trasporti pubblici locali.

Per ottenere favori regolatori, queste aziende non hanno da comperare pubblicità. Infatti i Governi, centrale e locali, sono disposti a fare quanto (decentemente) possibile per aumentare i dividendi che essi stessi ricevono. Un discorso analogo vale per le imprese in cui Berlusconi ha degli interessi. Queste aziende, se hanno comprato più pubblicità, l’avranno fatto per lo scopo per cui lo fanno tutti, per aumentare le vendite.

Potrebbe esserci un’altra spiegazione: siccome le nomine di Presidente e Amministratore Delegato sono governative, potrebbe darsi che essi abbiano orientato gli acquisti di pubblicità sul canale Mediaset quando Berlusconi era al governo per propiziare la propria rinomina. Il paper non ne parla. Qui ci si limita a riportare quando i vertici sono stati rinnovati: per Enel, nel 1996, nel 2002, nel 2004, nel 2014; per Eni nel 1991, nel 2004, nel 2014. Quattro ricadono dunque nei periodi sotto osservazione (2001-2005; 2008-2011). Nei periodi precedenti le nomine, i giornali sono ricchi di ipotesi. Anche se non si tratta stricto sensu del tipo di ritorno che gli autori hanno in mente, si consegna loro l’ipotesi perché provvedano, se credono, ad eventuali indagini e considerazioni.

Normativa sul conflitto di interessi

Dire in Italia ci sia absence of conflict of interest rules è un po’ sbrigativo. Al contrario è proprio con Berlusconi che si diventa ipersensibili al problema. Ricordo che in campagna elettorale del 1994 io stesso dicevo che, tra televisioni, giornali, banche, assicurazioni, calcio, distribuzione, i molteplici interessi di Berlusconi avrebbero compromesso la sua capacità di Governo, obbligandolo a lasciare di continuo la presidenza del Consiglio dei ministri. Prima di Berlusconi in Italia dilagò il gigantesco conflitto di interessi tra gli obbiettivi sociali (e non solo….) dei partiti al governo e gli obbiettivi economici delle aziende pubbliche. In nome degli interessi (sociali) di partito si fecero  Alfasud a Pomigliano e Ilva a Taranto, quest’ultima contro il parere dei manager Iri; o, per restare in tema, si proibì alla Rai (di cui si diceva che perfino i fattorini avessero un padrino politico) di trasmettere in colore: conflitti di interessi che costarono al Paese danni incalcolabili.
Quanto al blind trust, non è che in Italia ne manchi la cultura (p.225): era chiaro che nel caso di Berlusconi a nulla sarebbe servito, tutti sapendo che cosa avrebbe contenuto quel non-blind trust.

Quanto all’obbligo a vendere, fu oggetto di numerose proposte: ma dato che per la legge italiana l’obbligo a vendere equivale al sequestro e questo è consentito solo risarcendone il valore, la conseguenza sarebbe stata o una nazionalizzazione o la vendita a uno straniero. In ogni caso una misura che avrebbe avuto un costo politico elevatissimo per i partiti di sinistra, e consegnato vieppiù a Berlusconi la medaglia del difensore dell’industria privata.

C’è poi la, seppur debole, legge 215 del 2004: prevede l’incompatibilità ad assumere incarichi differenti da quelli di governo, e il divieto di adottare atti od omissioni da cui deriverebbero “danni per l’interesse pubblico”, con verifica a carico dell’Antitrust; la legge non ricomprende la “mera proprietà” di un’impresa né tra le ipotesi di incompatibilità né tra le ipotesi di conflitto di interessi.

Conclusione

Lo studio impressiona per la raffinatezza con cui i dati vengono analizzati. Impressiona non solo noi profani, ma anche gli economisti, dal momento che è stato considerato la migliore pubblicazione dell’anno dell’American Economic Review.

Ma al rapporto casuale tra investimento pubblicitario e vantaggi regolatori manca la conferma anche di un solo esempio.

Per le aziende a controllo statale andrebbe capito perché avrebbero dovuto spendere per favori regolatori che non hanno bisogno di chiedere, e perché invece non si sia seguito la traccia del rinnovo delle nomine. Immaginare ritorsioni di parte di Berlusconi per i renitenti (p.228) sembra un po’ eccessivo: e servirebbero, soprattutto, anche in quel caso degli esempi. Le imprese farmaceutiche avrebbero aumentato, secondo la figura 5 (p.245) le loro spese pubblicitarie, mentre possono farlo solo per i medicinali da banco. Interessi cospicui avrebbero le aziende private che partecipano alle grandi gare del public procurement: ma aziende di questo tipo raramente hanno prodotti da pubblicizzare sulla televisione commerciale; e oltretutto, come si è visto recentemente, favorirne qualcuna non è facile.

La propensione ad aumentare i budget pubblicitari può derivare dalla necessità di contrastare fenomeni avversi (l’11 Settembre, una crisi finanziaria), o di affrontare una competizione particolarmente vivace (il diffondersi degli smartphone, la concorrenza delle auto tedesche, come sembra sospettino anche gli autori nella nota a p.237), o più genericamente cogliere l’aspettativa di un miglioramento del clima economico. Che un governo percepito come business friendly autorizzi aspettative di crescita sembra naturale, che queste attese inducano a maggiori investimenti in pubblicità anche, e così pure che questi vadano prioritariamente rivolti a coloro che si immagina abbiano simpatia per quella parte politica. Della pubblicità si dice che si sa che solo metà serve, ma non si sa quale: qui, con un governo più pro-business, appare logico investire sul canale preferito da quelli che credono in lui. L’aumento della pubblicità sulle reti Mediaset potrebbe rivelare semplicemente l’aspettativa che un governo business friendly dia benefici a tutta l’economia, che le aziende vogliano approfittare di questo sentiment per spingere le vendite e che credano i canali Mediaset i più adatti a convogliare i messaggi.

Tutto ciò ha procurato un indubbio vantaggio economico alle aziende di Berlusconi: il conto va presentato a chi per 30 anni ha cercato di impedire la liberalizzazione del sistema televisivo italiano.

Infine si segnalano due errori. Uno banale (p.236): i governi succeduti a Prodi furono tre e non due (D’Alema due volte e Amato una). E uno più curioso: il beneficio economico per Berlusconi, a p.228  è profit, a p.252 è increase of revenues, per cifre sostanzialmente uguali, over 1 billion nel primo caso, 1,1 billion nel secondo. Quando il costo marginale è basso, tale è pure la differenza tra i due valori: i termini però restano concettualmente e simbolicamente differenti. Un lapsus? E in tal caso, rivelatore di che?

 

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