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Ecco le reaganate di Donald Trump nella riforma fiscale

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Si fa sempre più ripido il cammino della riforma fiscale promessa da Donald Trump ai suoi elettori. Per quanto mercoledì, parlando agli abitanti del Missouri, abbia cercato di nascondere la frustrazione di non veder partire la riforma, Trump sa che per tagliare le tasse servono i soldi dell’Obamacare repeal. In 8 mesi di presidenza non è ancora riuscito a convincere i deputati repubblicani, uno su tutti il senatore Mitch McConnel, a stracciare e sostituire la riforma sanitaria di Obama. Ad intralciare i piani del governo si aggiunge ora il conto da 160 miliardi di dollari lasciato da Harvey, l’uragano che ha devastato il Texas e la Louisiana nei giorni scorsi.

IL DISCORSO DI TRUMP NEL MISSOURI

“Siamo qui oggi per lanciare un programma che riporterà indietro Main Street e ridurrà le enormi tasse sulle nostre imprese e sui nostri lavoratori”, ha esordito il presidente davanti a un pubblico in visibilio, “negli ultimi anni milioni di americani hanno visto la prosperità volare via e non è stato un bello spettacolo, specialmente per me, che ero nel business e riuscivo a vedere cosa stava accadendo”.

Ad oggi c’è ancora solo un documento ufficiale sulla riforma fiscale della nuova amministrazione, la più grande annunciata da quella di Ronald Reagan nel 1986: un foglio di 250 parole presentato dal consigliere economico di Trump Gary Cohn il 26 aprile. 12 punti, 7 volti a ridurre il peso del fisco sulle famiglie, 5 per alleggerire le imprese e riportare in patria i capitali fuggiti all’estero.

CHI MUGUGNA E CHI GIOISCE

Trump in Missouri non ha avuto dubbi: la sua riforma fiscale “beneficerà i lavoratori americani onesti e le loro famiglie”. Non è d’accordo l’Istituto per la Tassazione e la Politica Economica (ITEP), think-thank americano indipendente che ha pubblicato il 17 agosto uno studio secondo cui “i tagli alle tasse andranno alle persone che guadagnano più di un milione di dollari l’anno”. Secondo l’istituto si tratterebbe di una fetta di popolazione dello 0,5% che nel 2018 riceverebbe il 48,8% degli sgravi fiscali.

Chi invece guadagna meno di 45.000 dollari annui (44,6%) e chi porta a casa un assegno tra i 45.000 e i 100.000 dollari (32,6%), cioè la classe media che ha contribuito a portare Trump alla Casa Bianca, riceverà rispettivamente il 4.4% e il 14% dei tagli. L’ITEP non è l’unico centro indipendente ad aver bocciato la riforma di Trump. Anche un rapporto del Tax Policy Center (TPC) conclude che “la maggior parte dei guadagni e dell’aumento dei redditi andranno alle famiglie con i redditi più alti”.

Gioisce invece l’American for Tax Reform (ATR), associazione ultra-conservatrice fondata da Reagan. Il suo presidente Grover Norquist con un corsivo sul Washington Examiner ha definito la riforma “un ottimo patto per gli americani” e si è detto certo che “potrà restaurare lo storico tasso di crescita americano del 3.5%”.

LA CORPORATE TAX

Nessuno può mettere in dubbio che gli Stati Uniti abbiano una delle corporate tax più alte al mondo: l’imposta federale è infatti del 35%. Tra le promesse annunciate da Gary Cohn, Trump ha messo nero su bianco l’obiettivo di portarla al 15%, una cifra ambiziosa anche per i repubblicani di ferro del Tea Party. “Oggi stiamo ancora tassando le nostre imprese al 35%” ha ammesso il Tycoon nel comizio, “pensate che in alcuni casi, quando includi le tasse statali e locali arriva a molto più del 40%”.

Da qui l’esodo dei colossi a stelle e strisce, che “a causa delle nostre alte tasse e delle orribili e obsolete regole burocratiche, parcheggeranno i loro profitti offshore per evitare di pagare le tasse statunitensi se il denaro torna indietro”. Che l’attuale corporate tax gravi soprattutto sulle piccole e medie imprese lo dimostra ancora una ricerca dell’ITEP: dal 2008 al 2015, di 500 grandi imprese studiate, nel primo anno 100 non hanno sborsato un centesimo in tasse, negli anni a seguire 30 hanno pagato una tassa del 6,9%, 8 hanno continuato ad evadere, le restanti hanno pagato una tassa media del 21,2%.

I TAGLI ALLA BUROCRAZIA

Semplificare è la parola d’ordine che Trump ama usare quando parla di tagli alle tasse. A partire dalla riduzione degli scaglioni da 7 a soli 3: 10%, 25% e 35%. Ma anche e soprattutto dall’eliminazione di tutta la burocrazia in eccesso che trasforma in un’impresa il pagamento delle tasse di un cittadino qualunque. Così Trump in Missouri ha ricordato che “il codice fiscale è così complicato che più del 90% degli americani ha bisogno di un professionista per pagare le imposte”. Tutto vero: lo conferma il rapporto del 2016 dell’organizzazione internazionale Taxpayer Advocate. Negli States il 54% dei contribuenti paga un commercialista e circa il 40% paga software specializzati, come TurboTax, a partire dai 50 dollari a consulenza.

ADDIO BORDER TAX

Doveva essere uno dei cavalli di battaglia della riforma, e invece non è comparsa fra i 12 punti del documento di aprile. Parliamo della Border Adjustment Tax (BAT), un’idea dello speaker repubblicano Paul Ryan che ha stentato a trovare consensi fin dall’inizio, a partire dallo scetticismo di Gary Cohn. Un’imposta del 20% sulle importazioni, presentata un po’ troppo frettolosamente come una specie di IVA, che avrebbe dovuto raccogliere un trilione di dollari in 10 anni. Legata a doppio filo al NAFTA, l’accordo di libero scambio pluridecennale con Messico e Canada che Trump davanti ai cittadini del Missouri ha definito “l’orribile, terribile accordo che ha portato via tanto di quel business dal vostro Stato, dalle vostre città e paesi”, oggi è stata abbandonata alle spalle da Capitol Hill.

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