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Las Vegas, l’America e le armi

La contabilità della morte è un compito ingrato dello storico e del giornalista: per il tema, per il rischio di errori ma anche per il rischio che la ripetitività dell’evento si traduca in quella del commento. Soprattutto oggi che, a 36 ore dalla strage, su Las Vegas si è già detto tutto e di tutto, e che la possibilità di riflessioni originali è limitata dai massacri che si ripetono ogni anno. Con meno scrupoli, si potrebbe riciclare senza troppi problemi quanto detto per un qualunque massacro precedente.

Se Steve Paddock, 64 anni, bianco, apparentemente benestante, ha stabilito un triste primato assoluto, negli Stati Uniti le sparatorie di massa (con più di quattro vittime, secondo la definizione usata dell’FBI) sono un dramma frequente. Le quattro maggiori sono avvenute nell’ultimo decennio: oltre Las Vegas, la discoteca gay di Orlando (12 gennaio 2016, 49 morti e 58 feriti), il Virginia Tech (16 aprile 2007, 32 morti) e la scuola di Sandy Hook (14 dicembre 2012, 26 morti, in gran parte bambini).

Ma questo non significa che 59 morti e oltre 500 feriti possano passare sotto silenzio. Si tratta di dimensioni che, al di fuori del terrorismo politico, il resto del mondo non conosce e che gli Stati Uniti sembrano invece accettare quasi fossero un disastro naturale paragonabile a Harvey, Sandy, Katrina e agli altri uragani che li flagellano periodicamente. Al contrario, la diffusione di armi letali non ha nulla di naturale. Si tratta di un fenomeno politico, che negli ultimi decenni ha subìto una mutazione genetica rispetto alle sue origini.

La tutela introdotta nel 1791 dal II Emendamento alla Costituzione («Una milizia ben regolata essendo necessaria alla sicurezza di uno Stato libero, il diritto del popolo di avere e portare armi non sarà violato») era esplicitamente legata alla difesa collettiva e, implicitamente, alla mancanza di forze armate permanenti. L’uso del termine «people» (popolo) anziché «citizens» (cittadini) rinforza la lettura delle armi come diritto collettivo. La lettura attuale, sostenuta dalla Corte Suprema sempre più conservatrice, considera piuttosto le armi un diritto individuale, vanificando la già debole volontà dei singoli Stati di regolamentare la materia. In Nevada non esiste di fatto alcun limite, e anzi lo Stato può abolire le disposizioni più restrittive introdotte a livello locale. Sotto molti aspetti ci si potrebbe fermare qui.

La realtà è più complessa. Uno studio delle università Harvard e Northwestern mostra che solo un quinto della popolazione possiede armi, e che la metà dei circa 265 milioni di armi sono detenute da appena il 3% della popolazione.

Altri sondaggi mostrano percentuali piuttosto alte a favore di varie forme di regolamentazione. Il fatto che numeri relativamente piccoli, e presumibilmente distribuiti in maniera disomogenea, siano in grado di bloccare ogni riforma razionale è legato alla polarizzazione del discorso nell’alternativa sì/no a cui ha contribuito la trasformazione della National Rifle Association (NRA) da club di appassionati in organizzazione politica che scende nell’agone politico, appoggiando alcuni candidati e attribuendo a ciascuno un’approvazione (o bocciatura) in base alla posizione sull’argomento. Unendo risorse economiche e passaparola, la NRA, alla quale peraltro pare aderisca solo un proprietario di armi su cinque, è stata una antesignana del ruolo dei social media per mobilitare una minoranza e trasformarla in blocco politico. Negli anni sfidare apertamente la NRA è diventato una sorta di suicidio politico, tanto che oggi circa due terzi dei membri del Congresso sono da essa “approvati”.

Di fronte a questo, poco possono le voci dei repubblicani moderati come Michael Bloomberg, generoso finanziatore della causa della regolamentazione, o Jim Brady, il capo ufficio stampa di Reagan che dopo essere stato gravemente ferito nell’attentato al presidente diede vita a una specifica campagna contro la violenza armata.

Lo ha ben compreso Donald Trump, che nell’ultima campagna elettorale ha fatto da cassa di risonanza ai timori della NRA, additando Hillary Clinton come colei che «vuole togliervi le vostre armi». Anche il suo appello all’unità nazionale delle ultime ore ha evitato accuratamente ogni riferimento all’opportunità di un ripensamento sul tema del diritto universale al porto di armi di qualsiasi tipo. Lo stesso invito alla preghiera anziché alla riflessione si richiama implicitamente al disastro naturale più che al problema sociale.

Il rifiuto di guardare le cose come stanno è rivelato dalle fake news: quelle secondo cui il vero problema sarebbe il terrorismo internazionale (ma dall’11 settembre al 31 dicembre 2013 le vittime americane per terrorismo non arrivano a 3.400, contro oltre 406.000 per armi da fuoco), quelle secondo cui l’assassino deve essere islamista (sfruttata dall’ISIS per una rivendicazione al momento priva di conferma) e addirittura un anti-Trump (in base a un’identificazione che partendo dal nome di Marilou Danley, amica dello sparatore, è arrivata a Geary Danley, la cui pagina Facebook lo proclamava elettore democratico).

Voci che si sono diffuse rapidamente, dalla TV russa ad alcune testate italiane, senza alcun tentativo di verifica indipendente ma solo con la spasmodica gara contro il tempo e la conferma dei preconcetti alimentata dall’algoritmo di Facebook. La carica degli alternative facts si è già tradotta, sebbene con minor successo che in passato, in teorie di complotto secondo cui CIA e FBI diffonderebbero false spiegazioni per coprire la propria incapacità nel prevenire gli attentati islamisti.

La realtà è purtroppo molto più semplice. Un americano su quattro è stato minacciato con un’arma da fuoco e quattro su dieci conoscono qualcuno che è stato colpito (anche accidentalmente) da un’arma da fuoco.

In tutti i Paesi esistono gli psicopatici, e in tutti i Paesi esistono le armi. Il culto delle armi fa sì che Stati Uniti si incontrino più facilmente che altrove. Finché gli Stati Uniti non riusciranno a riportare la discussione sulle armi al buon senso, i termini del problema non cambieranno e Formiche.net rischierà di ripubblicare questo articolo 274, 333 o 325 volte l’anno: tante quanto le sparatorie di massa – secondo la definizione dell’FBI, con quattro o più vittime – del 2014, 2015 e 2016.

Il 2017 è a quota 273. Finora.

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