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La retribuzione “cattiva” scaccia quella buona

Il Fmi ha pubblicato un capitolo molto interessante nel suo ultimo World economic outlook che analizza lo strano puzzle del mercato del lavoro contemporaneo in diverse economie avanzate. L’osservazione di partenza è che a fronte di un andamento dell’occupazione che, in alcuni casi, è persino migliorata rispetto al periodo pre crisi, la crescita delle retribuzioni è rimasta lenta, quando non addirittura depressa. Contraddicendo ogni abito mentale consolidato, la tensione sul mercato del lavoro, derivante da situazioni vicine alla piena occupazione – si pensi al caso giapponese – non ha generato pressioni sulle retribuzioni. E questo, secondo i molti che ancora venerano il feticcio della curva di Phillips, spiega anche l’andamento stracco dell’inflazione.

Il Fmi non può fare a meno di notare una tendenza che è emersa con prepotenza nell’ultimo decennio: l’aumento del numero dei lavoratori parti time che non sono affatto felici di trovarcisi, nel senso che potendo scegliere vorrebbero lavorare di più, e quello dei lavoratori temporanei, inquadrati in forme contrattuali la più disparate, come i contratti cosiddetti a zero ore diffuse nel Regno Unito. Lo sviluppo di queste forme contrattuali e del part time porta con sé il vantaggio di alzare gli indici di occupazione e far scendere quelli della disoccupazione, ma al prezzo di sollevare forti dubbi sull’effetto che svolgono sulla crescita della produttività, che infatti rimane depressa, e soprattutto sul livello delle retribuzioni. Questi lavori, più o meno precari, sono fortemente indiziati di deprimere le retribuzioni totale almeno quanto fanno con la produttività.

Al fine di testare questa ipotesi, il Fmi ha svolto un’analisi che confronta l’evoluzione della contrattualistica del lavoro con quella delle retribuzioni, prendendo spunto da tre survey redatte fra il 2007, il 2010 e il 2014. I contratti di lavoro sono stati classificati in tre categorie: a tempo indeterminato e a tempo pieno, a tempo indeterminato part time, a tempo determinato. La prima osservazione è che “lo schema visto nel settore non manifatturiero diverge da quello osservato in quello manifatturiero”. Un grafico aiuta a visualizzare gli esiti. Come si può vedere, la quota di lavoratori a tempo pieno e indeterminato è diminuita assai meno rispetto ad altri settori come i servizi non di mercato o le costruzioni, dove per converso sono cresciute moltissimo parti time e lavori temporanei.

Detto in cifre, i lavoratori full time e a tempo indeterminato nei settori non manifatturieri, fra il 2007 e il 2014, sono diminuiti dall’81,8% al 77,3, mentre quelli del settore manifatturiero son passati dall’87,2 all’85,9%. A fronte di questi andamenti, si è assistito a una notevole crescita di contratti part time e temporanei nei settori non manifatturieri. I part time son passati dal 9,5 all’11,8%, mentre nel manifatturiero crescevano di appena lo 0,8%, passando dal 5,6 al 6,4%. Quanto al lavoro temporaneo, nel settore non manifatturiero gli addetti sono cresciuti dall’8,6 al 10,3%, a fronte di un +0,5 (da 7,1% al 7,6%) nel manifatturiero.

Questi dati generali vanno letti tenendo conto che si tratta di medie. Il declino di lavoratori a tempo pieno e indeterminato è stato molto pronunciato nei paesi che oggi sperimentano un tasso di disoccupazione ancora sopra il livello degli anni 2000-7, al contrario di quanto accaduto nei paesi dove oggi la disoccupazione è più bassa di allora. Ciò a sostegno dell’ipotesi che la tenuta dei lavori a tempo pieno e indeterminato giovi all’occupazione. Anche qui, ci sono differenze settoriali importanti che si possono osservare su questo grafico.

A fronte di ciò, il Fmi ha svolto una ricognizione sull’andamento delle retribuzioni. L’analisi è stata svolta su circa 20 mila aziende ed è emerso che “i settori con una quota elevata di contratti temporanei tendono ad avere tagli più elevati delle retribuzioni o blocchi”. In sostanza il trend tende ad estendersi a tutto il settore. Il Fmi ha individuato una relazione positiva fra la quota si lavoratori con contratto temporaneo e le aziende che riportano andamenti declinanti nelle retribuzioni. al contrario più elevata è la quota di lavoratori a tempo pieno e indeterminato, più le retribuzioni tengono. “Il pattern – conclude il Fmi – suggerisce un’associazione fra il tipo di contratto del lavoratore e il settaggio delle retribuzioni: i settori con una quota maggiore di lavoratori con contratti tradizionali (a tempo indeterminato e full time) tendono a sperimentare meno tagli alle retribuzioni o loro congelamenti”. Potremmo dire, parafrasando una nota legge economica, che la retribuzione cattiva scaccia quella buona. Il problema è che il contrario non vale.

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