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Perché è fatua l’euforia per le buone previsioni del Fmi sull’Italia

Pier Carlo Padoan

Le ultime previsioni del Fondo monetario, che indicano per l’anno in corso, una crescita del Pil pari all’1,5 per cento, sono state accolte con un sospiro di sollievo. Il peggio è passato: questo il refrain di quasi tutta la stampa, mentre a livello governativo prevaleva un sorriso compiaciuto. Lo stesso Paolo Gentiloni, di solito così british, nelle sue dichiarazioni, si era lasciato andare all’ottimismo. Siamo ormai fuori dalla crisi. Finalmente c’è luce oltre il tunnel.

Non vorremmo guastare la festa, ma forse è troppo presto per brindare a champagne. La fotografia prospettica scattata dai tecnici di Christine Lagarde presenta luci ed ombre. E la notte prevale sul giorno. Nelle proiezioni al 2022, per quello che valgono, il 2017 rappresenta un eccezione, piuttosto che l’inizio di una nuova fase di espansione. Già l’anno successivo si tornerà alla mestizia, con un tasso di crescita destinato a retrocedere all’1,1%. Per poi di nuovo abbassarsi in una serie di numeri ancora più piccoli: inchiodati sotto l’1%. Non c’è quindi da stare allegri. E poco importa se l’eurozona farà registrare un andamento simile. Le differenze, a favore dei nostri partner, rimarranno comunque sensibili. Con un tasso di crescita pari quasi al doppio. Dati che confermano il permanere di una differenza strutturale: maturato sotto il governo Monti (-3,5 punti di pil reale nel 2012 e nel 2013), quel fossato non solo non è stato riempito, ma continua ad allargarsi.

Due sono i fattori che rendono fragili le strutture economiche italiane: il più basso tasso di sviluppo in termini reali ed un’inflazione (effetto collaterale) più contenuta. In termini di prodotto lordo, ai prezzi di mercati, quella distanza è progressivamente cresciuta. Nel 2002 (nascita dell’euro) l’economia italiana pesava sul complesso dell’eurozona per il 17,7%. Nel 2011 avevamo perso circa 1 punto percentuale, per poi iniziare una caduta rovinosa che, se non troverà rimedio, ci farà progressivamente scivolare verso il basso. Le previsioni del Fmi indicano un rapporto percentuale pari ad appena il 14,6%, nel 2022. Altri 2 punti in meno, rispetto a quanto già perso in precedenza. Fenomeno che non avrà solo un riflesso economico, ma politico: nel momento in cui la prospettiva europea è quella delle geometrie variabili. Paesi che conteranno di più ed altri di meno.

I mesi che ci separano dalla campagna elettorale dovrebbero, quindi, far riflettere tutte le forze politiche. La prossima legislatura non sarà facile da gestire, se non si interverrà con un programma credibile, in grado di arrestare la deriva in atto. Ma affinché questo avvenga è necessario uscire dagli schemi del passato e cercare di capire cosa non abbia funzionato. La deflazione, indotta dalle politiche montiane, ha prodotto un cambiamento morfologico del nostro sistema economico. Si è perso circa un quarto del potenziale produttivo prima esistente, il mercato immobiliare è, a sua volta, sprofondato. Si sono quindi sterilizzati due formidabili atout che, da sempre, hanno caratterizzato il “modello di sviluppo” della nostra economia.

La forza del mercato interno – i consumi delle famiglie e delle imprese – il settore delle costruzioni sia (edili che civili) quale volano di una crescita complessiva. Il crollo degli investimenti – altro elemento che ha contribuito ad un avvitamento verso basso – ne è stato logica conseguenza. Se non c’è mercato, nessuno si sogna di investire. E non basta certo il contenimento, pure necessario, dei tassi di interesse. In questo caso le possibili (comunque poche) erogazioni di credito sono state utilizzate, in prevalenza, per ristrutturare il debito pregresso, piuttosto che per costruire nuovi capannoni o acquistare, da parte delle famiglie, beni di consumo durevoli. Ci hanno, in parte salvato, le esportazioni: unico elemento dinamico di un fosco quadro congiunturale. La dimostrazione è data dall’andamento delle partite correnti della bilancia dei pagamenti con un attivo sempre superiore a 2 punti di pil. E che resterà tale – almeno secondo le indicazioni del Def – fino al 2020. Almeno a politiche invariate.

Il paradosso è evidente. Siamo un Paese che esporta tutto: uomini, merci e capitali. Una piccola ed asfittica Germania, ma con un tasso di disoccupazione che è pari al doppio. E, come Germania, non siamo in grado di utilizzare, al nostro interno, le pur ingenti risorse finanziarie, che derivano dal surplus della bilancia dei pagamenti. Che equivalgono a crediti concessi all’estero in un autolesionistico impulso di generosità. Nelle condizioni date, il primo impegno della politica economica deve essere, quindi, quello della reflazione. Dare fiato al mercato per rimettere in moto il ciclo virtuoso “investimenti – consumi – investimenti”. Ma per farlo non possiamo affidarci ai semplici automatismi. I privati, infatti, investono dopo che la domanda interna e ripartita. E non prima. Con un ritardo che dipende dalla maggiore o minore lentezza dei meccanismi di trasmissione.

Se, com’è necessario, dobbiamo anticipare; non resta altro che puntare su una rinnovata presenza dello Stato, con una massiccia ripresa degli investimenti pubblici e privati (in sinergia) in grado di rimettere in moto il ciclo complessivo. Non stiamo riproponendo lo schema dello “Stato – postino” o dello “Stato – piglia tutto”. Anzi il suo perimetro va limitato, lasciando al mercato tutto ciò che esso può fornire. Ciò che rileva è il suo diverso riposizionamento. Nel fare le cose che sono necessarie ed indispensabili e non occuparsi – o occuparsi meno – della routine. Nella presunzione che la crisi – come insegnavano i classici – non è solo caduta del reddito, ma la molla che spinge verso una necessaria ed indispensabile riconversione.

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