Skip to main content

DISPONIBILI GLI ULTIMI NUMERI DELLE NOSTRE RIVISTE.

 

ultima rivista formiche
ultima rivista airpress

Come oscilla in Cina il pendolo fra Stato e mercato

Di Lingling Wei
Xi Jinping

Da nuovo presidente, Xi Jinping aveva promesso di dare più spazio ai mercati. E aveva anche considerato lo smantellamento di un mastodontico ministero di controllo delle imprese statali. Oggi ha accantonato certe idee. Lo Stato cerca di pilotare l’economia, dai prezzi delle materie prime a quelli delle azioni, alla valuta. I colossi statali sono in piena espansione grazie ai capitali privati. E l’agenzia di cui Xi aveva vagheggiato la soppressione è tornata al timone. Alla vigilia del secondo mandato, Xi trova troppo rischioso affidarsi ai mercati e preferisce il capitalismo di Stato. Quando la leadership parla di riforma non intende la liberalizzazione dell’economia, come sotto Deng Xiaoping, bensì un modello guidato dal governo.

Il Congresso del Partito Comunista ridarà il timone a Xi per altri cinque anni. Dopo aver eliminato molti rivali, dovrebbe acquisire ulteriore libertà nell’affermare il controllo statale su tutta la società.

I principi che Pechino vedeva come strumenti per rafforzare i colossi di Stato e i mercati dei capitali sono ora potenziali fonti di disordine. “I rischi sono ovunque, e ora più che mai il governo deve svolgere un ruolo più importante” nella guida dell’economia, ha dichiarato Liu Shangxi, a capo dell’Accademia cinese delle scienze fiscali, un think tank del governo. Più credito affluisce alle imprese statali, meno produttive di quelle private. Il capitalismo statale è ricco di inefficienze: convoglia investimenti su progetti edilizi non necessari e in settori, come l’acciaio, che già producono in eccesso. Adesso il peso dello Stato minaccia di tagliare fuori l’imprenditoria privata, linfa dell’innovazione, e rallentare l’ascesa della Cina nei ranking. Mal gestita, l’economia cinese potrebbe sprofondare nella scarsa crescita, ritardando il sorpasso sull’economia Usa. A perdere è il settore privato, incluse le multinazionali.

Il governo sostiene di poter gestire i problemi di debito del Paese, e che investire in infrastrutture e innovazione possa sostenere la crescita. I leader comunisti non sono mai stati totalmente a loro agio con le dinamiche capitalistiche. Xi sembrava un’eccezione quando entrò in carica nel 2012. La mentalità era stata ricondotta all’esperienza dello Zhejiang, dove minori barriere all’imprenditoria hanno portato a un’enorme creazione di ricchezza e all’affermazione di magnati come Jack Ma. Nello Zhejiang, Xi aveva abbracciato politiche a sostegno dell’impresa privata. Prima di essere consacrato leader della Cina, nell’autunno 2012, scomparve misteriosamente per due settimane. Indiscrezioni raccontano che sia stato in compagnia di alcuni consiglieri nella città di Zhuji, nel delta dello Yangtze.

Un anno dopo, il suo primo programma politico recitava: le forze di mercato svolgeranno un ruolo decisivo nell’economia cinese. Brividi di ansia corsero per i corridoi della potente State-owned Assets Supervision and Administration Commission (Sasac), che detiene le quote del governo nelle principali imprese di Stato e le vigila strettamente, anche designandone i top manager.

Secondo indiscrezioni, Xi avrebbe valutato una proposta audace basata sul modello Temasek, il fondo sovrano di Singapore. Le società di investimento finanziate del ministero delle Finanze avrebbero assunto da Sasac la proprietà di imprese statali e lasciato la gestione a dirigenti professionisti. Sostanzialmente una dichiarazione di morte.

Per testare il piano, Xi avrebbe inviato il vice premier Ma Kai in alcune province, tra cui Zhejiang, Jiangsu e Jiangxi. I funzionari senior di Sasac a Pechino contattarono in anticipo i colleghi locali per convincere il vice premier dell’importanza della Commissione. Si aggrapparono a un obiettivo fondamentale per Xi: il rafforzamento del Partito Comunista, sostenendo che sarebbe stato raggiunto con l’aumento del peso delle imprese statali e del controllo di Pechino.

La situazione precipitò nel 2015. La Cina era al centro di un rally epico, in parte risultato di una politica volta a incoraggiare l’investimento in azioni e trasformare i mercati azionari in canale di finanziamento delle imprese. Molti investitori avevano contratto prestiti per comprare nel “bull market dello zio Xi”.

A giugno il vento cambiò. Ebbe inizio il crollo con ricadute su tutto il mondo, con imbarazzo di Pechino. Poi, in agosto, gli investitori esteri approfittarono del breve esperimento cinese di una moneta lasciata più libera di fluttuare. Fu tra le sfide più grandi per Xi, che espresse profondo disappunto verso i regolatori che sembravano incapaci di arginare le scommesse contro le azioni e la moneta cinesi.

In pochi mesi l’impegno della Cina verso il mercato svanì. Un team di aziende statali intervenne acquistando azioni. Il governo usò il pugno di ferro su chi aveva speculato al ribasso. La banca centrale mise da parte le altre priorità per sostenere lo yuan, la cui debolezza stava spingendo enormi quantità di capitali fuori dal Paese. La conclusione della leadership cinese fu che il saliscendi dei mercati rende i risultati troppo incerti. Lo scorso maggio la banca centrale ha aggiunto alla formula per il tasso ufficiale dello yuan un fattore “anticiclico” per resistere alle pressioni dei mercati valutari.

L’entusiasmo per i mercati dei primi giorni della presidenza Xi è andato. Secondo alcuni osservatori, Xi ripristinerà le riforme pro-mercato dopo il Congresso, quando il suo potere sarà consolidato. Tra i molti segni contrari, sotto Xi l’influenza della Sasac è cresciuta. Gli asset totali controllati dall’agenzia sono quasi raddoppiati a 7.600 miliardi di dollari. “Nessuno parla più di modello Temasek”, ha affermato un funzionario di Sasac, che negli ultimi anni ha condotto un’ondata di fusioni senza vedere miglioramenti di efficienza o redditività. Anzi, la Sasac si è spesso affidata a grandi aziende statali per mantenere in vita le piccole in perdita.

L’anno scorso Baoshan Iron and Steel ha acquisito Wuhan Iron and Steel, soffocata dai debiti. Dall’accordo è nata la seconda acciaieria al mondo dopo ArcelorMittal. Nel 2015 China National Machinery Industry Corp ha assicurato la sopravvivenza di un produttore di apparecchiature sull’orlo del default.

Con un’economia più ampia e una migliore sicurezza sociale, in teoria la Cina saprebbe resistere meglio a una ristrutturazione del settore pubblico rispetto a 20 anni fa, quando intervenne il premier Zhu Rongji con la chiusura delle fabbriche in perdita e lo spezzatino di alcuni gruppi nel tentativo di stimolare l’efficienza con la concorrenza. L’attuale numero uno della Sasac, Xiao Yaqing, era a capo di Aluminium Corp of China, o Chinalco, nata grazie agli interventi di Zhu. Nel 2008 Chinalco acquisì una quota di Rio Tinto per ostacolare l’offerta ostile di Bhp Billiton, che Pechino temeva avrebbe fatto lievitare i prezzi del ferro. Funzionò, a dimostrazione di come le imprese statali possano essere utili pedine dello Stato, spianando la strada all’ascesa di Xiao. Il mese scorso ha Xiao dichiarato: “Rafforzare il partito è la chiave per riformare il settore statale e rendere le imprese pubbliche più forti e competitive”. La Sasac ha sostenuto Chinalco ponendo sotto le sue ali gli impianti più deboli. Una controllata quotata a Shanghai ha allo studio una vendita di azioni i cui proventi sarebbero destinati all’acquisto di asset. “La Cina sembra tornare al passato, quando grande era bello e l’interesse nazionale batteva la redditività aziendale”, commenta Michael Komesaroff, direttore di Urandaline Investments. Per evitare che la crescita freni troppo, Pechino tiene aperti i rubinetti del credito. La maggior parte è andata a società statali, meno efficienti. Per Nicholas Lardy, dell’Istituto Peterson per l’Economia Internazionale, la crescita dell’economia statale è “potenzialmente molto più sfavorevole per la crescita a lungo termine e la stabilità finanziaria del Paese”.

Gli sforzi del governo per ridurre la sovracapacità hanno escluso molti privati dai settori di carbone e acciaio. Le aziende statali sono rimaste intatte, e alcune hanno fatto più profitti allo spegnersi della concorrenza privata. Quando le centrali elettriche statali si sono lamentate per l’aumento dei prezzi del carbone a causa dei tagli di produzione, il governo ha chiesto alle aziende statali di vendere il carbone sotto il prezzo di mercato. In agosto, Pechino ha unito sotto un solo tetto Shenhua e China Guodian, dando vita a una delle più grandi società elettriche, agevolando il controllo dei prezzi di carbone ed elettricità. Oggi gli investimenti privati crescono molto più lentamente che nel settore pubblico. Le autorità hanno messo in ginocchio le ambizioni globali dei conglomerati cinesi privati che si erano affacciati a Hollywood e avevano comprato alberghi in Occidente.

A volte, l’approccio top-down della Cina, in cui sono i burocrati a decidere vincitori e vinti, ha aiutato il privato. È il caso delle politiche industriali a promozione del dominio cinese nell’auto elettrica. Più spesso, lo Stato corteggia il privato per la liquidità. In autunno, China Unicom, la più debole telco statale, ha venduto 11,7 miliardi di dollari di azioni della controllata quotata a Shanghai a una cordata di investitori, tra cui Tencent, Alibaba e Baidu. L’operazione è stata salutata come un trionfo della riforma sulla proprietà mista. Ma stando a Gavekal Dragonomics, la quota complessiva dello Stato in China Unicom è calata solo dal 63 al 58%.

Pubblicato su MF/Milano Finanza, quotidiano diretto da Pierluigi Magnaschi

Traduzione di Giorgia Crespi

×

Iscriviti alla newsletter