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Barilla, Coldiretti e gli interessi nella guerra del grano

Etichetta sì, etichetta no: la guerra del grano è ricominciata. Produttori contro consumatori, pastai contro agricoltori. Tutto per l’etichettatura obbligatoria voluta dal governo e che dal 17 febbraio 2018 costringerà le aziende ad indicare l’origine del grano utilizzato per produrre la pasta. Un decreto promosso dai ministri Carlo Calenda e Maurizio Martina per disciplinare un settore in crisi anche per via di una forte speculazione sul cereale che solo lo scorso anno ha fatto perdere alla nostra agricoltura 700 milioni di euro.

Una misura studiata per rendere trasparente ciò che mangiamo se si pensa, ad esempio, che le importazioni dall’Ucraina di grano tenero (per il pane) sono cresciute del 315% nell’ultimo anno mentre il Canada resta in testa per le spedizioni di grano duro (per la pasta). Con il Canada che riesce ad esportare a dazio zero mentre applica una aliquota fino all’11% all’ingresso della pasta in arrivo dall’Italia sul suo territorio. Distorsioni del mercato che hanno messo in ginocchio un’intera filiera, basti ricordare infatti che l’Italia è il principale produttore europeo di grano duro destinato alla pasta con 4,8 milioni di tonnellate su una superficie coltivata, pari a circa 1,3 milioni di ettari, ma sono ben 2,3 milioni di tonnellate di grano duro che arrivano dall’estero e, tutto questo, i consumatori non lo sanno.

LA POSIZIONE DEL GOVERNO

Il governo per venire incontro alle posizioni dei produttori e dei consumatori che reclamano maggiore trasparenza ha varato, dopo aver ascoltato tutti i soggetti interessati, un decreto ministeriale che diventerà operativo tra qualche settimana. L’obiettivo dichiarato è di restituire un futuro al grano italiano perché con l’indicazione in etichetta dell’origine del grano nei derivati e trasformati, assieme al divieto di utilizzare grano extra comunitario oltre i 18 mesi dalla data di raccolta, si va incontro alle esigenze delle piccole e medie imprese (che vorrebbero fermare – per la verità – anche le importazioni selvagge a dazio zero). Le regole per le nuove etichette, pubblicate il 16 agosto nella Gazzetta ufficiale, riguardano tutte le paste prodotte con la semola di grano duro e il riso. In particolare si stabilisce che in etichetta si indichi la dicitura “Paese di coltivazione del grano” e il Paese nel quale è stata ricavata la semola di grano con la dicitura “Paese di molitura”. Ancora, se il grano è stato coltivato per almeno il 50% in un solo Paese si ricorre ad indicare il Paese con l’aggiunta della dicitura “Non UE”, “UE”, “UE e non UE”.

IL RICORSO DEI PASTAI: IL DECRETO E’ UNA FORZATURA

Ma non tutti sono d’accordo. L’Aidepi, associazione delle Industrie del Dolce e della Pasta Italiane, a settembre ha presentato un ricorso al Tar del Lazio, perché – spiega il suo presidente Riccardo Felicetti – “il decreto è fatto male: non informa correttamente il consumatore, rischia di far credere che ciò che conta per una pasta di qualità è l’origine del grano. E questo non è vero. Non incentiva gli agricoltori italiani a produrre grano di qualità. Riduce la nostra competitività all’estero perché introduce un obbligo che comporta costi aggiuntivi solo per noi e non per i nostri concorrenti”. Gli ha fatto eco Paolo Barilla, Vice Presidente dell’omonima azienda che ha spiegato come la pasta non può essere fatta solo con grano italiano perché questo non basterebbe. “In Italia solo il 10% del grano è di qualità eccellente – dice – il 50% è di qualità media e il 40% è insufficiente per raggiungere la qualità di purezza necessaria alla produzione della pasta. Per questo i pastai non lo possono usare. Il decreto sull’etichettatura è una forzatura, perché in un certo senso ci impone di utilizzarlo. Quando dicono che compriamo grani stranieri che costano meno, non è vero: il miglior grano al mondo è americano costa il doppio dell’italiano”.

PERCHE’ NON SI VUOLE LA TRASPARENZA?

La verità? Per Roberto Moncalvo, presidente della Coldiretti “si vuole impedire ai consumatori di conoscere informazioni importanti come quella di sapere se nella pasta che si sta acquistando è presente o meno grano canadese trattato in pre-raccolta con il glifosate, accusato di essere cancerogeno e per questo proibito sul grano italiano. Si vuole fermare un provvedimento contro le speculazioni che hanno provocato il crollo dei prezzi del grano italiano al di sotto dei costi di produzione con una drastica riduzione delle semine e il rischio di abbandono per un territorio di 2 milioni di ettari coltivati situati spesso in aree marginali”. Ma questa posizione non è condivisa da tutti, bast ricordare come l’associazione dei mugnai, Italmopa, con il presidente Cosimo De Sortis recentemente ha sottolineato che ci sono “alcune campagne denigratorie che, dietro una presunta difesa degli interessi dei consumatori, nascondono, in realtà, interessi di mera natura sindacale e assurde tendenze protezionistiche in un Paese che, rispetto alle esigenze dei molini, risulta deficitario del 60% per quanto riguarda la produzione di frumento tenero e del 45% per quanto riguarda la produzione di frumento duro“.

E ADESSO CHE SUCCEDE?

La voce che ancora non si è espressa è quella dell’Unione Europea (il ricorso dei pastai infatti più che per un fine interno vuole essere una segnalazione alla Commissione), la quale – è bene ricordarlo – in tema commerciale ha la prima e non l’ultima parola essendo il commercio una tematica gestita direttamente da Bruxelles. Se il decreto porterà a delle distorsioni di mercato la Commissione potrà intervenire e sanzionare il nostro paese con una procedura d’infrazione, anche perché la misura introdotta potrebbe essere lesiva della libera circolazione delle merci che devono rispettare il regolamento comunitario. Ma sia al Mise che all’Agricoltura sono tranquilli. Sono state studiate bene tutte le normative, anzi con questo decreto – spiega una fonte governativa – ci adegua al regolamento europeo del 2011 numero 1169 che richiede la corretta e completa informazione al consumatore e della rintracciabilità dell’alimento da parte degli organi di controllo, nonché per la tutela della salute. La tendenza oramai è in atto, basti ricordare che prima ancora che per il grano ci si era mossi per l’etichetta obbligatoria per il latte e i prodotti lattiero-caseari come burro, formaggi, yogurt per impedire di spacciare come Made in Italy i prodotti ottenuti dagli allevamenti stranieri. E fino ad ora l’Europa non ha avuto nulla da ridire.

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