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Che cosa succederà fra Madrid e Barcellona dopo l’ultima mossa di Rajoy

Mariano Rajoy - Imagoeconomica

Colpo di Stato. È questa l’espressione che ricorre più frequentemente nel duello a distanza fra Madrid e Barcellona per l’indipendenza catalana. Così se il governo centrale condanna la “disobbedienza ribelle, sistematica e consapevole” dei catalani, Carles Puigdemont, presidente della regione e leader del movimento indipendentista, definisce “un golpe, il peggior attacco dai tempi del franchismo”, la decisione del premier Mariano Rajoy di attivare entro il 27 ottobre l’articolo 155 della Costituzione, prima volta nella storia del Paese, che darà il via alla destituzione del governo catalano e a nuove elezioni entro sei mesi.

Convocando un Consiglio dei ministri straordinario ieri, Madrid ha giocato d’anticipo per spezzare l’ambiguità lasciata dalle esitazioni di Puigdemont. In linea con la posizione della corona, Rajoy ha optato per il pugno duro, senza compromessi, contro la regione in rivolta. Tra le misure che più hanno infervorato gli animi dei quasi 500mila manifestanti scesi in piazza a Barcellona sabato pomeriggio al seguito di Puigdemont e della sindaca Ada Colau, spicca la minaccia di un commissariamento dei Mossos d’Esquadra, la polizia catalana accusata di collusione con gli indipendentisti, e soprattutto la sostituzione dei vertici dei due principali media locali, Radio Catalunya e Tv3.

“La mossa di utilizzare tutta questa intransigenza non ha pagato granché l’ultima volta”, spiega a Formiche.net Francesco Cherubini, professore di Diritto dell’Unione Europea alla Luiss. “Rajoy rischia di aver commesso lo stesso errore, così non fa che gettare benzina sul fuoco sulla causa secessionista. Sarebbe stato preferibile minacciare misure severe, ma poi cercare una mediazione politica”. Una mediazione che, oggi più che mai, sembra non essere più un’opzione, dopo che Rajoy ha chiuso ogni porta alle “pretese secessioniste”.

I prossimi passi infatti sono noti: voto del Senato (saldamente nelle mani dei populares del primo ministro) sul 155, destituzione della Generalitat, nuove elezioni. Resta da capire come Madrid cercherà di applicare concretamente il testo costituzionale. “Una scelta intransigente come quella di Rajoy deve essere sostenuta nella pratica”, commenta Cherubini, “ora bisogna riprendere materialmente possesso di alcune prerogative della regione autonoma, che a sua volta potrebbe intervenire con la forza”.

Mentre i focolai di tensione che si erano spenti in queste due settimane di tregua ricominciano a scoppiettare, in Catalogna cresce il risentimento per il silenzio assordante delle istituzioni europee nei confronti della causa indipendentista. Che Bruxelles abbia fatto una chiara scelta di campo, schierandosi accanto al governo di Madrid, lo ha dimostrato ampiamente la passerella di Oviedo dei presidenti Tusk, Tajani e Juncker per il premio Principessa delle Asturie, alla corte del re Felipe VI e dello stesso Rajoy. Ma davvero l’UE non può avere un ruolo di mediazione fra Madrid e Barcellona? La risposta del giurista della Luiss è netta: “L’UE non aveva altra possibilità che considerare il referendum come una questione interna alla Spagna. In questi casi l’atteggiamento della comunità internazionale è improntato a grande prudenza, e credo sia una scelta condivisibile”.

Come spiegare allora i crescenti malumori anti-europeisti nella regione che da sempre ha trainato la Spagna verso Bruxelles? Che sia anche dell’Unione Europea la responsabilità del (presunto) mancato disegno autonomistico della Catalogna? “Innanzitutto c’è da dire che in Spagna esistono le autonomie, come in Italia, e c’è una effettiva localizzazione del potere, altrimenti non esisterebbe un parlamento catalano” risponde Cherubini, spezzando una lancia per Bruxelles, che a suo dire tutela sufficientemente gli enti locali con due principi del diritto UE: “uno più generale, ovvero il rispetto dell’identità nazionale degli Stati, e poi il principio di prossimità, con cui l’Unione impone agli Stati di assumere le decisioni il più vicino possibile ai cittadini”.

Barcellona può lamentare una mala gestio dei fondi strutturali UE, solitamente destinati a zone povere e prive di infrastrutture, o della politica agricola comunitaria in Spagna: “Entrambi elementi che non hanno a che vedere con la regione catalana, che è una regione ricca e che non investe particolarmente nell’agricoltura”.

Va detto che una parte consistente della società catalana, da quanto emerge dagli ultimi sondaggi, si fida poco del movimento secessionista. Una paura che, per l’esperto della Luiss, potrebbe essere trainata dall’eventualità di un abbandono dell’Unione Europea. “Non mi sorprendono i sondaggi. La Catalogna è una regione prospera che, più ancora che a restare nella Spagna, ha grandi vantaggi a rimanere nell’Ue. Staccarsi da Madrid significherebbe abbandonare anche l’Unione, con scarse possibilità di rientrarci in futuro”.

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