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Vi spiego perché difendo la sentenza della Corte Costituzionale sulle pensioni

Barbagallo

Non condivido le valutazioni critiche (alcune delle quali ospitate anche da Formiche.net) sulla sentenza del 25 ottobre scorso con la quale la Consulta  ha riconosciuto la legittimità (e la ragionevolezza)  del dl n.65/2015 con cui il governo Renzi  provvide a dare applicazione alla sentenza n.30 dello stesso anno, in materia di rivalutazione automatica delle pensioni la cui dinamica era stata bloccata (comma 25 dell’articolo 24 del decreto Salva Italia varato dal governo Monti alla fine del 2011) per i trattamenti superiori a tre volte il minimo (1.405,05 euro lordi mensili nel 2012, e 1.443 nel 2013).  Credo che i giudici delle leggi non avrebbero potuto esprimersi diversamente. E non solo – come si dice – per evitare lo sfascio dei conti pubblici caricandoli di un esborso insostenibile (si parla di alcune decine di miliardi) che – come prima cosa – avrebbe determinato l’impossibilità nella legge di bilancio di sterilizzare l’aumento dell’Iva. Ma la sentenza, a mio avviso, non fa una grinza anche sul piano giuridico (ovviamente questa opinione rimane in attesa di una lettura approfondita della motivazione). La Corte, con la sentenza n.30, non aveva sollevato una questione di illegittimità del comma 25 nel suo complesso, ma soltanto nella parte in cui prevede che «In considerazione della contingente situazione finanziaria, la rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici, secondo il meccanismo stabilito dall’art. 34, comma 1, della legge 23 dicembre 1998, n. 448, è riconosciuta, per gli anni 2012 e 2013, esclusivamente ai trattamenti pensionistici di importo complessivo fino a tre volte il trattamento minimo INPS, nella misura del 100 per cento». In sostanza il Collegio si era espresso sulla congruità della misura in rapporto alla necessità di garantire l’adeguatezza delle prestazioni come prevede l’articolo 38 della Carta Costituzionale. Il governo Renzi con il dl n.65 aveva ampliato la platea dei soggetti tutelati, elevando, sia pure con rimborsi di carattere parziale, il limite della salvaguardia a sei volte l’importo del minimo. Il che ha significato che, nell’insieme, ad almeno 12 milioni dei 16 milioni di pensionati, era stata riconosciuta una tutela totale o parziale in relazione alla rivalutazione automatica al costo della vita. I giudici delle leggi – che avevano ribadito, come in casi precedenti, la legittimità dell’intervento del legislatore in questa materia  (tanto da respingere, in sede di esame del comma 25,  un ricorso che chiedeva la cassazione integrale della norma) non potevano mettersi a contrattare con il Governo sui criteri dell’adeguatezza. Già la sentenza n.30 del 2015 presentava dei profili discutibili. Insistere su quella impostazione avrebbe significato un’invadenza nei poteri spettanti al governo e al Parlamento.

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Gli ukase di Matteo Renzi contro il rinnovo del mandato di Ignazio Visco sono sembrati fatti apposta per  assicurare la riconferma al governatore in scadenza: cosa tutt’altro che sicura in assenza dell’incomprensibile clamore suscitato dalla mozione del Pd e dall’insistenza  più volte ribadita del suo segretario. La vicenda è troppo grave e delicata per pensare ad un errore o anche soltanto ad una spregiudicata  mossa elettorale. Renzi  ha voluto mandare un segnale, indiretto ma chiaro, sull’onda lunga del dopo elezioni: il Pd non è disponibile ad appoggiare un governo tecnico, anche se presieduto da Mario Draghi.

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Capita che un ciclista si metta alla ruota di un collega in fuga solitaria, poi, a pochi metri dal traguardo, gli sottragga  la vittoria con un guizzo fulmineo ed inatteso. È più o meno quanto è riuscito a fare Pietro Grasso con Laura Boldrini.

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