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Ecco come Padoan deve guerreggiare a Bruxelles sul Fiscal compact

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Nel frammento di tempo che ci separa dalle elezioni, la risposta di Pier Carlo Padoan (in foto), ai rilevi della Commissione europea, appare comprensibile. Essa si muove tutta all’interno dei parametri del Fiscal compact, di cui contesta, tuttavia, l’algoritmo del calcolo che porta alla definizione del deficit strutturale. E’ una vecchia storia. Quella metodologia è stata più volte messa in discussione nelle varie sedi internazionali, a dimostrazione di quanto possano essere astratte le relative prescrizioni.

Non sono solo i 5 Stelle ad essere governati da un algoritmo. Più o meno una logica simile gli ortodossi di Bruxelles l’applicano a problemi ben più importanti. Conclusione? Un’Europa in continua fibrillazione. Un tasso di crescita troppo basso, rispetto al potenziale produttivo esistente. Un aumento degli squilibri interni tra le aree più forti e gli emarginati. Brexit e la Catalogna. E domani? Forse il Veneto o le Fiandre. Giovani, infine, costretti ad espatriare per cercare una propria ragione di vita. Nel frattempo, a causa dei forti attivi della bilancia dei pagamenti, un euro sopravvalutato rispetto alle monete dei Paesi concorrenti. Che riduce ulteriormente le possibilità di sviluppo.

Tutto bene, comunque. O meglio: per niente, salvo un piccolo particolare. Quei paletti finanziari, che Padoan ha ribadito essere a presidio del bilancio, servono per scoraggiare ogni tentazione. Il ciclo elettorale, da che mondo è mondo, è stato sempre il maglio che ha portato a squilibrare i conti pubblici. Mance varie da distribuire per aumentare il consenso a favore di questo o di quel l’esponente politico, in vena di emendamenti. Il carteggio con la Commissione europea dovrebbe garantire – ma lo potremo dire solo in seguito – una maggiore moderazione nell’uso della penna, da parte dei grafomani che siedono in Parlamento.

Sembrerebbe alla fine che i conti tornino. Il Fiscal compact, seppure con le sue astruserie, a qualcosa sarebbe servito. Sarebbe, se i suoi effetti collaterali non fossero perversi. A dimostrazione di una vecchia regola della politica economica. Quand’essa si trasforma in un semplice esercizio aritmetico, perde ogni significato. Diventa pura accademia, senza più alcun contatto con il mondo reale. Il caso italiano lo dimostra ampiamente. La svolta deflazionistica, imposta dal governo Monti, ha trasformato, in radice, il suo “modello di sviluppo” che, da allora, è divenuto export led. Il suo asfittico tasso di sviluppo è trainato solo dall’estero, mentre la domanda interna langue.

La conseguenza di questa mutazione è stata la distruzione di circa il 25 per cento del suo potenziale industriale. Le imprese sopravvissute alla grande glaciazione sono, per un terzo circa, in grado di competere sui mercati internazionale. Per un altro terzo boccheggiano border line. Mentre quel che resta richiede profondi processi di riconversione. Difficili, se non impossibili, se la domanda interna – a partire dall’edilizia – non riprenderà. Occorre, pertanto, un grande sforzo di riprogrammazione. E’ anche possibile?

Lo è grazie ad un forte attivo delle partite correnti della bilancia dei pagamenti. Dove il segno “più” – oltre 2 punti di Pil – sta ad indicare l’esistenza di risorse finanziarie che, invece, di essere utilizzate sul piano produttivo, sono semplicemente sterilizzate. O meglio: sono prestiti concessi all’estero, quale contropartita dell’attivo valutario. La causa ultima di questo squilibrio è l’esistenza del Fiscal compact. Il livello di indebitamento della finanza pubblica italiana, paradossalmente, è troppo basso. Contribuisce a deprimere la domanda effettiva e quindi produce l’eccesso di esportazioni sulle importazioni. Un assurdo evidente per un Paese che ha forti livelli di disoccupazione, crescita della povertà e preoccupanti fenomeni di emarginazione territoriale.

C’è naturalmente il problema dell’eccesso di debito. Ma l’esperienza storica dimostra che l’antidoto non è la deflazione, bensì la maggior crescita del Pil nominale: quel mix di maggior benessere sostanziale e di una limitata inflazione, che fa da lubrificante al dinamismo sociale. Come si vede ben poche sono le frecce all’arco dell’ortodossia. Ed ecco allora una possibile soluzione. La politica di bilancio non dovrebbe essere compressa dal fiscal compact, ma guardare, pur nel rispetto dei vincoli di Maastricht, al saldo delle partite correnti della bilancia dei pagamenti. In un ottica di progressivo riequilibrio: possibile solo rilanciando la domanda interna.

Quindi maggiori investimenti pubblici e riduzione del carico fiscale, nell’ottica di una sua riforma complessiva. Proposte destinate a contrastare i maneggioni del consenso a caccia di voti, a spese del contribuente. Pier Carlo Padoan non é solo uno dei ministri più importanti del governo Gentiloni, è, soprattutto, un economista, che queste logiche conosce bene. Si faccia quindi sentire in quel di Bruxelles. Metta da parte gli algoritmi e ritorni ai grandi classici del pensiero economico. Ci sarà da battagliare, come ha fatto Mario Draghi, con i tedeschi. Ma il gioco vale la candela.

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